La demografia cambia la soglia della pensione

by Sergio Segio | 13 Settembre 2011 7:08

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Gli inglesi andranno in pensione a 67 anni già  nel prossimo decennio, invece che a partire dal 2030: lo ha detto ieri il ministro britannico della previdenza Iain Duncan Smith. A Berlino, dove già  l’età  pensionabile sta gradualmente salendo da 65 a 67 anni, sul tavolo c’è l’ipotesi — secondo il settimanale «Focus» — di alzare ancora l’asticella a 69 anni. Parigi alla fine dell’anno scorso ha deciso di passare da 60 a 62 anni, e da 65 a 67 per l’età  pensionabile «a tasso pieno». Nella stessa direzione anche l’Italia, dove salirà  a 65 anni anche l’età  di pensionamento per le donne, e per tutti e due i sessi si allungano comunque i tempi. E, soprattutto, continueranno ad allungarsi. Perché — al di là  delle «finestre» che arrivano dopo un anno/un anno e mezzo e delle «quote» che salgono — ogni tre anni la giustamente agognata età  pensionabile sarà  adeguata alla speranza di vita. A cominciare da tre mesi in più dal 2013. Poi ci sarà  il «ritocco», ancora da determinare, del 2016. Quindi nel 2019. E via dicendo.
Saranno revisioni molto probabilmente verso l’alto, visto che la speranza di vita è passata da circa 74 anni per gli uomini e 80 per le donne nei primi anni 90 a 78,4 e 84 anni, secondo la Relazione sullo stato sanitario del Paese, presentata pochi mesi fa al ministero della Salute. E le aspettative di vita dovrebbero crescere ancora. «Se le tendenze degli ultimi anni continueranno, sia pur leggermente attenuate, si può pensare di arrivare a 86 anni per le donne e 82 per gli uomini intorno al 2025», racconta Gianpiero Dalla Zuanna, demografo dell’Università  di Padova.
Ma perché sono soprattutto le aspettative di vita a giocare un ruolo così importante nel dibattito sulle pensioni e sulla tenuta contabile del sistema previdenziale? Perché, secondo le statistiche dell’Ocse — l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che raccoglie i principali Paesi dell’Occidente — gli italiani sono quelli che hanno la «vita pensionistica» più lunga: 27,3 anni per le donne (imbattute) e 22,7 anni per gli uomini (superati solo dalla non invidiabile Grecia). In termini di calendario «puro» si tratta di 27 anni e quattro mesi per le donne e di 22 anni, 8 mesi e 12 giorni per gli uomini. Il confronto è con i 26 anni e mezzo delle francesi e i 21,8 anni dei loro concittadini, per restare ai vertici della classifica. O, per scendere verso il fondo della lista, con i 20,7 anni delle tedesche e i 17 anni dei loro mariti, fratelli o compagni. Che ora, nonostante conti pubblici considerati inossidabili, e nonostante — appunto — una vita da pensionato più breve di tanti altri, stanno passando da 65 a 67 anni e forse a 69.
Il calcolo Ocse è naturalmente una stima che si basa sulle aspettative di vita, oltre che sulle caratteristiche dei vari sistemi pensionistici. E i numeri fanno riferimento al 2010, prima di molte riforme, quindi sono destinati a cambiare in futuro. Così come è destinata a crescere anche l’aspettativa di vita.
Ma, previsioni a parte, anche nelle classifiche sui fatti la situazione non cambia molto. Prendiamo il «ranking» dell’Ocse sull’età  media al momento dell’uscita dal mondo del lavoro: 61,1 anni gli italiani e 58,7 le italiane. Contro una media Ocse di 63,9 anni per gli uomini e 62,4 anni per le donne. Più «fortunati» di noi, tra i grandi Paesi europei, ci sono solo i francesi, con un’età  di addio al lavoro e di ingresso in pensione di 59,1 anni (gli uomini, le donne invece ricevono il primo assegno previdenziale a 59,7 anni).
Stime e medie a parte, è chiaro che agli «eccessi» di ieri corrisponderanno dei «sacrifici» domani. Pensioni più lontane e più sottili. Non come quelle fortunate impiegate pubbliche con figli che, tra il 1973 e il 1992, sono andate in pensione dopo 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi (mentre era già  possibile per gli statali lasciare il servizio dopo 19 anni e mezzo e per i lavoratori degli enti locali dopo 25 anni). Allora le pensioni si davano anche ai trentenni, con assegni quasi pari alla retribuzione. Oggi, invece, non sono pochi quelli che a 30-35 anni non hanno ancora trovato un lavoro stabile.

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