La rivolta degli indios d’Amazzonia contro il «loro» presidente Morales

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RIO DE JANEIRO — È la più severa sfida a Evo Morales in cinque anni di governo, la più complessa e dolorosa per il primo presidente indio delle Americhe. Perché vede tante anime della sua Bolivia in contrapposizione feroce sui temi che lo hanno reso famoso nel mondo: la difesa dei popoli indigeni, il rispetto della madre Terra, la lotta alla miseria atavica. Tutto a rischio adesso a causa di 300 chilometri di strada, una lingua di asfalto che dovrebbe tagliare in due la savana abitata da piccoli e fieri popoli chiamati Chimanes, Yuracares, Mojenos. I quali non ci stanno, nemmeno davanti all’idea che la Bolivia abbia un dovere storico davanti all’intero continente sudamericano. Quel pezzo di strada, infatti, è necessario per unire via terra l’Atlantico con il Pacifico, il cosiddetto Corridoio Bioceanico, dal porto brasiliano di Santos a quello cileno di Iquique. Merci che viaggiano su ruote, attraversando i nuovi eldoradi dove non ci sono più l’oro e l’argento dei Conquistadores, ma grano, soia, zucchero, legname pregiato, che hanno già  arricchito parte del continente. L’idea non piace soltanto alle grandi imprese, ma anche a tanti campesinos miserabili dell’altopiano che sognano il loro posto al sole, emigrando verso la nuova frontiera. Proprio come fece Morales, quando da ragazzo scese le Ande per andare a coltivare foglie di coca nel Chapare. La strada parte proprio da lì, dalla cittadina di Villa Tunari, da dove il giovane sindacalista aymara iniziò la sua corsa verso il potere. Indios contro indios, qualcuno ha sintetizzato così la questione. Da cui il dilemma di Evo.

Il Parco nazionale Tipnis, la regione tagliata in due dalla strada, sarebbe intoccabile secondo la Costituzione fatta approvare qualche anno fa da Morales. La nuova carta ha trasformato la Bolivia in una confederazione di 36 «nazioni» e popoli indigeni, e sostiene che questa gente debba essere consultata ogni volta che lo Stato centrale prende decisioni che riguardano i loro territori. Per questo, dallo scorso 15 agosto, 1.500 indios si sono messi in marcia, lentamente. Vogliono superare 4.000 metri di dislivello e arrivare a La Paz, sotto il palazzo di Morales, per strappare un no definitivo alla strada. Lungo il cammino hanno visto accrescere i consensi: ecologisti, Ong, altre popolazioni indigene dell’Amazzonia, la Chiesa cattolica, giovani attivisti delle città .

Tutto abbastanza pacifico fino a domenica scorsa, quando il potere ha reagito con durezza. Cinquecento poliziotti hanno attaccato la marcia in un punto decisivo, nella città  di Yucumo, mentre i manifestanti cercavano di attraversare un ponte. Ci sono stati dieci feriti e la polizia ha costretto gli indios (tra cui molte donne e bambini) a disperdersi nei villaggi vicini e rinunciare all’avanzata. La repressione ha terremotato il governo, spingendo alle dimissioni i ministri della Difesa e degli Interni, più alti funzionari di alto livello. La base tradizionale di appoggio a Morales si è lacerata, spingendo la principale centrale sindacale del Paese a proclamare uno sciopero generale. E le simpatie per la protesta, ovviamente, sono soltanto aumentate.

Dopo tre giorni di silenzio, finalmente Morales ha parlato e chiesto scusa. «Alle famiglie invoco perdono. Mi ha fatto male vedere quello che è successo, anche in quanto vittima in passato di situazioni analoghe». Ma ha poi scaricato la responsabilità  sulle forze dell’ordine, sostenendo che il governo non ha dato alcuna istruzione per reprimere la marcia. Per alleviare la tensione, Morales ha ordinato la sospensione dei lavori, finanziati dal Brasile, e si sta pensando a un referendum nazionale sulla questione. Ma non è servito. Gli indios si sono riorganizzati e hanno ripreso la loro marcia verso La Paz, mentre in molte città  della Bolivia si sono svolte manifestazioni a loro favore. «Traditore! Evo, non sei un vero indio!», sono adesso le parole d’ordine della rivolta, che rischia di estendersi dal problema della strada all’intera politica del governo centrale. Se gli indios della savana sostengono che il «corridoio» nel loro territorio porterà  devastazione, inquinamento e avventurieri di ogni sorta, nella base di appoggio a Morales sono parecchi anche coloro che ne vedono gli aspetti positivi. Le terre che si aprirebbero alla colonizzazione non sono soltanto foresta vergine, ma spazi adatti ad uno sfruttamento agricolo ad alto valore aggiunto, oggi incolti. Come si è dimostrato nel vicino Brasile o nell’Oriente della stessa Bolivia, dove il reddito medio è assai più alto che nella regione andina.

Un compromesso potrebbe essere raggiunto spostando il percorso della strada, affinché giri attorno al parco invece di attraversarlo. Ma l’aggiunta di ben 150 chilometri su 300 la farebbe diventare totalmente antieconomica, sostiene l’impresa brasiliana che ne ha l’appalto.


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