La sfida di Gheddafi jr «Lotteremo fino alla morte»

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TRIPOLI — Ancora i combattimenti non sono cessati, Gheddafi resta alla macchia, e il suo secondogenito Saif Al Islam giura di combattere fino alla morte, in un nuovo messaggio audio: «Parlo dai sobborghi di Tripoli. Mio padre sta bene. Moriremo nella nostra terra, non ci arrenderemo». Eppure già  emergono tra le fila della rivoluzione attriti e divisioni interne capaci di condizionare le speranze per una Libia libera e democratica. Lo si intuisce dalle polemiche sulla nomina dei nuovi capi militari, dalla lentezza con cui i leader politici di Bengasi si muovono verso la capitale, dal permanere delle divisioni tribali (volute e fomentate dalla dittatura per 4 decenni). Ma anche dalle difficoltà  di gestione pratica del Paese: nella regione di Tripoli permane grave la mancanza d’acqua; la guerriglia continua ad arrestare e maltrattare i cittadini africani accusandoli a torto o ragione di essere mercenari di Gheddafi; per le strade si avverte un diffuso senso di insicurezza. Che avverrà  ora? Chi gestirà  la transizione e come? Le organizzazioni umanitarie e l’Unione Europea denunciano con preoccupazione la questione degli africani. Noi stessi durante gli ultimi giorni abbiamo visto diverse prigioni improvvisate (un deposito di benzina, le cantine di una scuola, una baracca di lamiera) dov’erano rinchiusi centinaia di giovani somali, del Ciad, del Niger e del Mali, in attesa di essere processati.
Non è difficile cogliere gli attriti cresciuti negli ultimi mesi tra le brigate vittoriose che sciamano nella capitale, e che festeggiano sparando confusamente in aria (nonostante l’ordine di non farlo) in Piazza Verde, tornata ad essere la vecchia Piazza dei Martiri del tempo della monarchia. I combattenti coriacei delle montagne di Nafusa, tra cui si distinguono i berberi per i modi spicci e il dialetto spigoloso, guardano con sufficienza ai volontari arrivati da Bengasi. «Parlano tanto e fanno poco. In sei mesi di combattimenti non sono riusciti a sfondare il fronte nemico, se non quando siamo arrivati noi», dicono con tono di sufficienza, scherzando ma neppure tanto. Quelli di Misurata guardano tutti gli altri dall’alto in basso. Si considerano l’élite. E per ora si dividono Tripoli in zone d’influenza: le brigate di Zintan nella zona dell’aeroporto internazionale; quelle di Misurata nel centro, specie attorno alle banche e i ministeri. Si tratta di posizioni temporanee. Non è strano che in guerra vi sia competizione tra alleati: tanti miliziani sono ragazzini, l’onore campanilistico della loro unità , la solidarietà  della trincea, prevalgono su tutto il resto. Nei prossimi giorni saranno mandati sui fronti di Bani Walid e Sirte, dove sono asserragliati i nemici assieme alle tribù più fedeli al Colonnello, contro i quali l’ultimatum alla resa intimato dai ribelli scade sabato mattina.
Molto più gravi sono i malumori per la nomina voluta dal presidente del Comitato nazionale transitorio dei ribelli, Mustafa Abdel Jalil, di Abdul Hakim Belhaj, a capo del Comitato militare di Tripoli. Un passo che in Libia, ma soprattutto in Occidente, solleva perplessità . Belhaj è leader storico del Fronte di combattimento islamico, organizzazione sospettata di legami con Al Qaeda. Per tre volte (tra il 1995 e il ’96) hanno tentato di assassinare Gheddafi. Nel 1998 il regime li aveva annientati. Belhaj finì nel famigerato carcere di Abu Salim, da cui è uscito solo un anno fa grazie alle aperture verso le opposizioni volute dal figlio «politico» di Gheddafi, Saif Al Islam. Una ventina di giorni orsono il numero due del Cnt, Mahmoud Jibril, aveva scelto Al Barrani Shakal, un ex generale di Gheddafi, per il posto di responsabile militare a Tripoli. Il malcontento era andato alle stelle, con manifestazioni violente a Misurata. E Jibril aveva cancellato la nomina. Incomprensioni e tensioni che in realtà  secondo molti osservatori testimoniano il permanere degli attriti dopo l’assassinio il 28 luglio nella zona di Brega di Abdel Fattah Younis, il capo di stato maggiore dei ribelli. La sua morte resta un enigma imbarazzante, in qualche modo sospeso (ma non cancellato) dalle vittorie militari degli ultimi giorni. Quando viene loro chiesto chi sono gli assassini, i portavoce dei ribelli tendono frettolosamente ad accusare i «sicari di Gheddafi». Ma dietro le quinte c’è chi punta il dito contro gli ambienti islamici e lo stesso Belhaj. «Younis è stato punito per il suo ruolo nelle sanguinose repressioni contro le proteste islamiche di Darna e Beida nel 1994 e 1995, quando lui era un alto ufficiale fedelissimo a Gheddafi», ci ha detto ieri un responsabile del porto di Tripoli che vuole restare anonimo.
Le prossime settimane saranno cruciali per i dirigenti della rivoluzione del 17 febbraio. Un loro portavoce appena arrivato a Tripoli ieri ci ha mostrato l’elenco di 39 membri del loro Consiglio. Dovrebbero diventare 80 nelle prossime settimane, creando una sorta di mini Parlamento ad interim incaricato di formare una commissione costituente, stabilire la data e le modalità  delle elezioni previste entro 18 mesi. Ma non è chiaro come verranno definiti i criteri per le nomine. Nell’attuale Consiglio ristretto si contano 5 cittadini di Tripoli, 4 di Bengasi, 3 di Misurata, 1 di Sirte. È indubbio che con la fine della guerra queste cifre muteranno e con esse le rappresentanze delle diverse aree.
Ma la guerra deve ancora terminare. I dirigenti della rivoluzione sperano ancora di giungere a una soluzione negoziata con i leader tribali di Sirte e Bani Walid. E d’altro canto si preparano a combattere.
Ieri era arrivata la notizia che Saadi, uno dei figli di Gheddafi che sembra sia rimasto nel Paese, aveva telefonato a Belhaj dicendosi disponibile alla resa in cambio dell’incolumità . In serata Saadi ha detto alla tv panaraba Al Arabiya di voler trattare a nome del padre, per «evitare un bagno di sangue». Ma subito dopo, il fratello Saif Al Islam lo ha contraddetto in un messaggio audio trasmesso dalla tv siriana Al-Rai. E ha avvertito i ribelli che se attaccheranno Sirte, troveranno «20 mila uomini armati, pronti a combattere per il Colonnello». Intanto, gli insorti hanno arrestato ieri il suo ministro degli Esteri Abdelati Al Obeidi. Gheddafi invece viene segnalato a Bani Walid, nell’oasi di Sebha e persino in un covo segreto ancora nella capitale. La Nato continua ad effettuare centinaia di sortite per facilitare gli eventuali attacchi finali.


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