La vera sfida ora è con la Cina

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NEW YORK — «Due guerre — una delle quali sicuramente non necessaria — che, insieme alla scriteriata politica di sgravi fiscali decisi da Bush durante il suo primo mandato presidenziale, hanno aperto una voragine di debiti diventata, con l’amplificazione prodotta dalla crisi finanziaria del 2008, la palla al piede degli Stati Uniti. E un’attenzione comprensibilmente ma esasperatamente concentrata sui rapporti col mondo islamico, con la conseguenza di trascurare per un intero decennio la vera sfida: quella con la Cina».
Il rogo delle Torri Gemelle ha aperto un decennio di instabilità , incertezza, paura. Ma per il politologo americano Joseph Nye, il docente di Harvard teorico del «soft power», la vulnerabilità  economica in cui l’America è caduta per le scelte fatte dopo quell’11 Settembre è perfino più grave della vulnerabilità  agli attacchi di Al Qaeda e dei suoi emuli.
Dopo quell’11 Settembre di 10 anni fa nessuno pensava al debito federale né alla Cina: sembrava che l’America e il mondo potessero precipitare in una spirale di attacchi terroristici, in un conflitto di civiltà  col mondo islamico.
«E’ vero: allora il bilancio federale era addirittura in attivo. E a Bush, che ha colpe enormi avendo scatenato conflitti dannosi per gli Usa e avendo demolito la sana politica fiscale di Clinton, va dato comunque atto di aver agito saggiamente per scongiurare il clash of civilizations, lo scontro di civiltà : ha detto e ripetuto sempre con forza che le sue non erano guerre contro l’Islam, e ha invitato rappresentanze del mondo musulmano alla Casa Bianca. Capo di un’amministrazione vulnerabile e impreparata davanti agli attacchi, a Bush va anche il merito di aver migliorato l’efficienza delle strutture di intelligence e antiterrorismo. Un lavoro che, continuato da Obama, ha consentito di bloccare tutti gli attacchi concepiti da allora in America, evitando un altro 11 Settembre. Questo non lo dobbiamo mai dimenticare».
Nel suo ultimo libro, «The Future of Power», di pochi mesi fa, lei parla di due grandi mutamenti: uno spostamento del potere dall’Occidente verso l’Asia che, peraltro, ancora non si sarebbe verificato pienamente anche grazie alla buona tenuta del «soft power» Usa e l’imporsi di nuovi fenomeni — dalla rivoluzione informatica all’ascesa delle entità  non governative. Qual è il peso dell’11/9 su questi fenomeni?
«Quando penso a come è cambiata la distribuzione del potere nel mondo immagino una scacchiera tridimensionale. Nella quale il primo livello è quello della forza militare. E qui quella degli Stati Uniti, ancora unica superpotenza globale, resterà  preponderante almeno per vent’anni. Il secondo livello è il potere economico, la cui distribuzione è molto cambiata con la globalizzazione: viviamo in un mondo complesso, multipolare. Con l’Occidente in grande difficoltà . Ma la vera complessità , le maggiori incognite sono al terzo livello: quello determinato dalla rivoluzione delle tecnologie digitali e dal moltiplicarsi dei poteri che operano fuori dal controllo dei governi, dalle Ong alle centrali del terrorismo».
Dieci anni fa l’America era l’unica superpotenza globale. Lo è ancora, ma è molto più vulnerabile ed è insidiata dalla Cina.
«E’ forse l’eredità  dell’11 Settembre più dura da metabolizzare. Non solo l’America si è dissanguata umanamente e finanziariamente in guerre inutili, costate oltre mille miliardi di dollari, che non l’hanno resa più sicura e hanno cancellato quella reazione di simpatia che tutto il mondo aveva avuto verso gli Usa dopo l’attacco di Al Qaeda. Quella crisi ha avuto anche quello che io chiamo un “opportunity cost”: ci è costato caro l’errore di non esserci concentrati sul nostro principale problema — la crescita tumultuosa dell’Asia orientale e lo spostamento di ricchezza e potere verso quest’area — distratti dal terrorismo, dai problemi nel Golfo e in Medio Oriente, dai rapporti col mondo islamico».
E’ cominciato lì il declino americano?
«Sì, ma è un declino relativo, non assoluto. Nonostante le difficoltà  economiche, gli Stati Uni restano non solo il Paese militarmente più forte, ma anche il più attraente: il “soft power” funziona ancora molto bene, come dimostra un recente sondaggio della Bbc sui Paesi che piacciono di più. Gli Usa vincono, mentre la Cina è molto indietro. Siamo ancora il Paese della libertà  e dell’innovazione, con maggiore capacità  di catturare cervelli. E un Paese che attira intelligenze ha più capacità  di rinnovarsi. Che il “soft power” sia importante lo sanno anche i cinesi. Dal 2007, quando Hu Jintao fissò questo obiettivo, Pechino investe massicciamente in questo campo, cercando di mostrare una faccia dialogante, diffondendo la sua cultura nel mondo attraverso gli Istituti Confucio. La tendenza c’è, ma il trasferimento di potere all’Asia non si è ancora manifestato in misura consistente».
Più che dalla crisi economica, lei si è detto allarmato dall’estrema polarizzazione del dibattito politico negli Usa, che sta avendo effetti paralizzanti sull’attività  di governo. C’entrano, anche qui, i mutamenti genetici subiti dopo l’11/9?
«No, le origini della radicalizzazione sono precedenti: risalgono a metà  degli anni 90 quando i repubblicani di Newt Gingrich misero sotto assedio la Casa Bianca di Clinton. Me ne ricordo perché facevo parte dell’amministrazione. Certo, poi c’è stato il radicalismo dei neocon che hanno spinto Bush a impugnare le armi, ma quelli erano ottimisti, non pessimisti: pensavano di poter esportare ovunque, magari con l’uso della forza, la democrazia. Evidentemente sbagliavano».


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