Le figure sgraziate di una danza che premia il potere

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Il caso «Dominique Strauss-Kahn» e la sua rapida conclusione con una richiesta di archiviazione da parte dell’accusa offre uno spaccato esemplare del doppio standard della giustizia nord-americana (la giustizia per poveri e quella per i ricchi) e illude al contempo il mondo che la procedura penale statunitense sia fra le più rispettose dei diritti dell’accusato. Ciò che è accaduto a Strauss-Kahn è infatti una rarità  nel panorama della giustizia penale d’oltre oceano, perché rare sono le ipotesi in cui l’imputato è ricco e rarissime quelle in cui è così ricco. La (falsa) immagine, che con il «caso DSK», come è stato battezzato negli Usa, il sistema americano offre di sé, corrisponde a un modello di procedura penale in cui all’accusato è assicurato appieno il diritto di non rispondere e in cui l’accusa mette tempestivamente al corrente la difesa delle lacune nelle prove che ha raccolto contro l’imputato.
Il diritto al silenzio
Nella stragrande maggioranza dei casi però, quando cioè l’imputato non ha un team difensivo paragonabile a quello che la forza economica di Strauss-Kahn gli ha consentito di mettere in campo, le cose non vanno affatto così. Chi è debole, poco sofisticato ed economicamente vulnerabile (ossia senza mezzi per contare su un bravo avvocato) cede, nonostante i famosi Miranda warnings («hai il diritto di stare zitto, ogni cosa che dirai potrà  essere usata contro di te, ecc…»), con facilità  ai ricatti e alle manipolazioni della polizia, che negli Stati Uniti ottiene nell’80% dei casi una rinuncia al diritto di non rispondere e in tre casi su quattro una dichiarazione di auto-incriminazione da parte dell’arrestato. Non per nulla nel 90% delle ipotesi il processo si conclude con un patteggiamento! Chi però, come Strauss-Khan, è ricco e sofisticato, e sa di poter contare sull’appoggio dei migliori avvocati sul mercato, ha la forza psicologica e il coraggio necessario per far valere il suo diritto di rimanere zitto. In un sistema processuale penale come quello americano, definito avversario, in cui cioè la verità  scaturisce dallo scontro verbale fra accusa e difesa è, inoltre, del tutto contro intuitivo che uno dei due agonisti consegni all’altro gli elementi capaci di mettere a repentaglio o addirittura, come in questo caso, di distruggere la sua possibilità  di vittoria. E se, come effettivamente accade, la legge impone all’accusa, in quanto parte più forte, di farlo, il sistema applicato prende le sue contromisure.
Gli organi dell’accusa americani sanno bene, infatti, che possono impunemente violare quell’obbligo. Non soltanto non accade quasi mai che essi siano sanzionati per la trasgressione, ma è addirittura molto raro che i giudici di appello annullino le condanne che l’accusa ha ottenuto nascondendo all’accusato gli elementi di prova a suo favore. Qualche esempio, fra i moltissimi, può essere d’aiuto per capire come di solito vanno le cose.
Le prove nascoste
Fra la fine del 1986 e l’inizio del 1987 a Oklahoma City si era disseminato il panico per lo stupro e l’assassinio di due anziane signore che vivevano sole e a poca distanza fra loro. Per quei fatti era stato accusato Robert Miller, un ragazzo nero, disoccupato, di 27 anni. Il processo si era concluso con una condanna a morte. Né la giuria né la difesa di Miller avevano mai saputo che, poco dopo il suo arresto, altre due vecchiette erano state stuprate nella zona. Per quei due stupri, incredibilmente simili nella dinamica ai due omicidi poi attribuiti a Miller, era stato arrestato e condannato un altro afro-americano, Ronald Lott. La polizia aveva in gran segreto disposto le analisi del sangue di Lott e queste, così come le impronte digitali trovate nelle case di tutte le vittime, lo collegavano a tutti gl omcidi e gli stupri. Anche quelli di cui era accusato Miller. Lo stesso procuratore, come titolare dell’accusa, seguiva entrambi i casi.
Il medesimo giorno quel procuratore, spostandosi da una stanza all’altra del palazzo di giustizia, patteggiava con Ronald Lott una pena detentiva per lo stupro di due delle quattro anziane ed accusava Robert Miller dell’omicidio delle altre due, senza preoccuparsi di fargli sapere che le prove raccolte contro Lott avrebbero potuto scagionarlo. Solo la doppia fortuna che qualche anno prima Kary Mullis aveva scoperto il modo di effettuare il test del Dna su piccolissimi frammenti di tessuto e che alcuni bravi avvocati si erano poi gratuitamente occupati del suo caso, consentirono a Miller di uscire, ben 9 anni dopo, dal braccio della morte. Il titolare della sua accusa, nel frattempo, era stato premiato con una nomina a giudice.
A Chicago, nel maggio del 1986, due studenti del college venivano aggrediti da due «neri sconosciuti» nei pressi della University of Chicago. Donald Reynolds veniva identificato come uno dei possibili autori e veniva poi condannato, senza aver mai potuto prendere visione delle analisi di laboratorio che lo scagionavano completamente. L’analista aveva inviato i risultati degli esami all’accusa, che si era però ben guardata dal metterli a disposizione della difesa. Solo l’intervento, a dieci anni di distanza, di due bravi e compassionevoli avvocati, unito a un test favorevole del Dna, aveva consentito a Reynolds di ottenere la grazia dal governatore dello Stato dell’Illinois. Nessuno, però, ha mai pagato per quell’«errore di comunicazione», costato a Reynolds dieci anni della sua vita.
Perché, allora, nel «caso DSK» l’accusa ha immediatamente consegnato alla difesa le prove della scarsa credibilità  della teste a carico? Lo ha fatto perché i bravissimi e remuneratissimi avvocati e investigatori di Strauss-Khan le avrebbero senz’altro scoperte da soli, se già  non ne erano a conoscenza. Il procuratore Vance temeva di rimediare a dibattimento una sonora sconfitta e, in un sistema processuale avversario, caratterizzato da vincitori e vinti, questo avrebbe pregiudicato per sempre la sua carriera, anche e soprattutto, politica. La potenza economica della controparte ha costretto, cioè, l’accusa a fare ciò che normalmente non fa, forte della consapevolezza che l’imputato, in genere povero o poverissimo, non può contare su una buona difesa. Di regola l’imputato (circa il 90% degli accusati non può pagarsi un avvocato) non può che affidarsi a un difensore pubblico, che, anche se bravo, è troppo oberato per potersi fare seriamente carico di difenderlo con la necessaria diligenza. Alternativamente si deve accontentare di un difensore a contratto, talmente poco retribuito però dallo Stato, da non potere neppure cercare gli elementi di prova a favore e da risultare il più delle volte del tutto incompetente. In entrambi i casi il costo proibitivo degli investigatori impedirà  di regola alla difesa di avvalersene.
Giustizia a due velocità 
È questa la giustizia a due velocità  del sistema statunitense: una giustizia forte con i deboli e debole con i forti. Come sarebbe andata in Italia? Meno pressato dal timore di una sconfitta processuale, perché la sua carriera non dipende come per il suo omologo americano dal numero di tacche sulla pistola delle condanne, il pubblico ministero italiano, che avesse fermamente creduto alla colpevolezza di Strauss-Khan, non avrebbe probabilmente mollato la presa. Il nostro sistema processuale, inoltre, nonostante la riforma all’americana del 1989, non è avversario.
Da noi, perciò, la ricerca della verità  non è demandata alla battaglia fra due combattenti, ma è il risultato di un’impresa cui partecipano non solo l’accusa e la difesa, ma anche la vittima e il giudice. Anche Nafissatu Diallo, la cameriera nera e immigrata che ha denunciato di essere stata aggredita sessualmente da Strauss-khan, e il giudice delle indagini preliminari avrebbero potuto far sentire la propria voce. In una metafora che evoca il ballo, la «danza della giustizia» italiana, come una rumba, si balla in tanti, non è come il tango statunitense in cui a ballare si è solamente in due. Tutti, dunque, compreso l’avvocato di Nafissatu Diallo, avrebbero avuto l’opportunità  di offrire – tramite richiesta di prove – il proprio contributo, alla ricerca di quanto accaduto quell’ormai famoso 14 maggio 2011 in una delle camere del Sofitel di Manhattan.


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