Lo jihadista che disse no a Bin Laden

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TRIPOLI. Non mi stupisce l’espressione dimessa, da maturo seminarista, di Abdel Hakim Belhaj, che incontro nella base aerea di Mitiga, ai margini della città . Chi sa esercitare il comando, sul campo, di solito non è uno sbruffone nella vita normale.
Nasconde la durezza alternando humour e candore. Inoltre su Belhaj pesa il passato religioso. È rimasta forse nel suo atteggiamento la traccia islamista. Un islamista dedito alla jihad armata, come è stato il suo caso, è anche un soldato a suo modo mistico. Abdel Hakim Belhaj nega di avere praticato il terrorismo, anche se un tempo era alleato di Al Qaeda e dei Taliban, e diretto interlocutore di Bin Laden e del Mullah Omar. Adesso è governatore militare della capitale, liberata con il decisivo contributo della Nato e la generale benedizione occidentale. L’acrobazia ideologica è spettacolare. Mi sorprendo ad osservare Belhaj con la curiosità  che merita un personaggio con un itinerario politico, militare, teologico da capogiro. Sulla sua faccia giovanile non ci sono i segni della tormentata, grande avventura, che fa di lui uno dei personaggi più contestati ed esaltati della nuova Libia. Ed anche uno dei più interessanti. Quindi discussi. Sospetti.
È inevitabile chiedergli quando ha incontrato l’ultima volta Bin Laden e lui risponde subito, con precisione, ed anche con un tono un po’ beffardo. Nel 2000. Vale a dire un anno prima dell’attacco alle Torri gemelle. «Mi ha chiamato lui. Voleva che noi libici del Gruppo combattente islamico ci unissimo alla lotta di Al Qaeda contro cristiani ed ebrei. Gli ho detto che i cristiani esistevano prima dei musulmani, e gli ebrei prima dei cristiani, e che Al Qaeda non rappresentava l’Islam. Perché non se la prendeva anche con i cinesi che adorano i sassi?». Belhaj voleva probabilmente dire le pietre, i monumenti buddisti, distrutti dai Taliban iconoclasti in Afghanistan. Fatto è che rifiutò, stando a quel mi ha detto, l’invito di Bin Laden, e così non ha combattuto contro gli americani l’anno successivo. Si era battuto contro i sovietici, alla fine degli Anni Ottanta, ma non voleva riprendere la lotta armata a fianco di Al Qaeda. Gli americani l’hanno tuttavia arrestato nel 2004, all’aeroporto di Kuala Lumpur in Malesia, dove era in transito con moglie e figli. Trasferito in una prigione di Bangkok sarebbe stato torturato da uomini della Cia. E poi consegnato ai libici.
Questi fatti, alcuni dei quali sommariamente affrontati nell’incontro, e per me incontrollabili, sono analizzati da tempo dalle intelligence occidentali, in particolare dagli americani. I quali hanno espresso la loro perplessità  e chiesto chiarimenti ai responsabili politici di Bengasi. Il timore è evidente. I vecchi jihadisti come Belhaj (noto anche come Abu Abdullah al-Sadiq), che hanno partecipato alla fase decisiva dell’insurrezione contro Gheddafi, potrebbero rivelarsi col tempo “cavalli di troia” di Al Qaeda.
Pochi giorni fa, il 22 agosto, con i suoi uomini della Brigata Tripoli, Belhaj irrompeva armi alla mano sulla piazza Verde, dove Muammar Gheddafi aveva officiato per quarantadue anni, e ventiquattro ore dopo entrava nei bunker di Bab al Aziziya, roccaforte ufficiale del rais. Per queste sue ancora calde imprese belliche Belhaj, 45 anni, barba e capelli color inchiostro, e un’espressione dolce, rassicurante, è stato messo alla testa del Consiglio militare di Tripoli. Ad affidargli la carica, anzi ad eleggerlo, sono stati i suoi uomini nell’euforia della vittoria e spinti dall’entusiasmo suscitato dal comandante che li aveva guidati nel cuore della capitale armi alla mano. Il potere politico di Bengasi ha abbozzato. Non pochi dei membri del Consiglio nazionale di transizione hanno accettato a malincuore quella nomina sul campo, imposta dalla base, dalla truppa. Ma il presidente, Mustafa Abdel Jalil, il più alto personaggio del potere provvisorio, l’ha sostenuta e la sostiene. E si è prodigato per rassicurare le cancellerie occidentali. Prima a Parigi, durante l’incontro iniziale con Sarkozy, e poi a Doha, nel Qatar, durante la riunione della Nato, il prudente, laico Jalil aveva al suo fianco Belhaj. Quasi fosse l’espressione della mano armata della rivoluzione. Lui, Jalil, ha fiducia nell’ex jihadista, diventato un eroe di un’insurrezione che si dichiara ispirata da principi democratici.
Chiedo a Belhaj, infilato in una tuta mimetica sdrucita che gli sta larga, se in quanto governatore militare pensa di avere il controllo della capitale. La domanda non è rituale, è sollecitata dal fatto che i massimi responsabili del Consiglio nazionale di transizione non hanno ancora osato metterci piede, benché non ci siano più combattimenti per le strade. La sicurezza non è dunque garantita? Belhaj non se la prende per il tono polemico. Risponde con calma: «Sotto il mio comando le varie unità  agiscono su due piani: su quello militare per arginare eventuali azioni nemiche, e su quello dell’ordine per proteggere i beni pubblici e privati, per evitare violenze e saccheggi. I risultati sono buoni anche grazie alla collaborazione della polizia».
Gli faccio notare che le varie brigate, arrivate da Misurata, da Zintan, da Yafran, e da altri centri, controllano diversi quartieri e affermano di non riconoscerlo come capo del Consiglio militare di Tripoli. Non è una rivolta, ma qualcosa che assomiglia a una dissidenza. «È un problema», ammette. «E noi stiamo trattando affinché le incomprensioni spariscano. Soprattutto cerchiamo di convincere quelle brigate ad abbandonare Tripoli e a ritornare nelle loro province».
Non sarà  facile. L’ex jihadista assume i toni di un diplomatico, il cui compito è di ricucire le divisioni tribali del Paese, e di appianare le rivalità  tra le brigate che si contendono la gloria per i successi militari. Ed anche di dissipare i sospetti dei laici nei confronti degli islamisti. Quindi anche quelli che suscita lui stesso, Belhaj, in quanto ex jihadista. Il vecchio Gruppo di combattimenti libico islamista è stato da tempo sciolto, e alcuni suoi ex membri hanno lanciato il Movimento islamico per il cambiamento. Sarà  un nuovo partito in vista di future elezioni? Belhaj nega di volersi dedicare alla politica al termine della missione militare. Ma il suo tortuoso itinerario potrà  difficilmente concludersi tanto presto.
Le svolte che ha dovuto compiere sono state tante. Ma quale era lo spazio per un giovane libico cresciuto nella soffocante, ossessionante dittatura di Gheddafi? Quando la Cia, nel 2004, l’ha consegnato al regime di Tripoli, come un jihadista da neutralizzare (avendo rinunciato alla ricerca nucleare, il rais libico era apprezzato dagli Stati Uniti), Belhaj è stato rinchiuso in una cella di isolamento dove non filtrava neanche un filo di luce. E c’è rimasto sei anni. Aveva partecipato a tre attentati contro Gheddafi ed era un miracolo che non venisse subito giustiziato. Nel 2010, accettando di sottoscrivere un documento di 416 pagine in cui si condannava ogni azione contro Gheddafi, e si abiuravano i principi teologici e ideologici alla base dell’azione jihadista, Belhaj è stato liberato. Seif al-Islam aveva promosso un’operazione tesa a recuperare gli islamisti, battezzata “pentimento degli eretici”.
Neppure un anno dopo Belhaj è comparso sulle montagne occidentali, dove i ribelli si addestravano per attaccare Tripoli, con materiale fornito dalla Cia e da altre intelligence occidentali. Il vecchio jihadista si è imposto rapidamente per la sua attitudine al comando ed anche per la sua lunga esperienza afgana. Il 22 agosto era con i suoi uomini sulle rovine di Bab al Aziziya, e annunciava sobriamente ai cronisti: «Il tiranno è scappato e noi partiamo al suo inseguimento». Adesso i suoi successi militari gli conferiscono incarichi di responsabilità , ma il suo passato solleva sospetti. A conclusione dell’incontro il governatore militare di Tripoli mi stringe la mano, la trattiene a lungo, e mi sussurra come se fosse una preghiera: «Dica che bisogna avere fiducia in noi, che rispetteremo il mandato del Consiglio nazionale di transizione. Il nostro obiettivo è quello di creare una Libia libera». Poi Anis, il suo giovane aiutante, lo trascina via.


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