Lo stato promesso sfida le Nazioni unite

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 RAMALLAH. È cominciato il conto alla rovescia. Il 23 settembre, subito dopo aver pronunciato il suo discorso di fronte all’Assemblea Generale dell’Onu, il presidente dell’Autorità  nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen consegnerà  al Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon la richiesta di adesione piena dello stato di Palestina. Lo ha annunciato ieri il ministro degli esteri dell’Anp, Riyad al-Malki. Al Malki conferma quanto dichiarato qualche ora prima da Abu Mazen alla televisione egiziana: all’Onu i palestinesi andranno con l’intenzione di chiedere che la Palestina venga accettata come membro pieno delle Nazioni unite. Solo in seconda battuta, di fronte al sicuro veto americano in seno al Consiglio di Sicurezza, richiederà  l’adesione come «stato non membro», status simile a quello di cui gode il Vaticano. L’annuncio arriva dopo che inviati degli Stati uniti, dell’Unione europea e del Quartetto per il Medio Oriente hanno avuto colloqui-fiume con palestinesi e israeliani, ufficialmente per trovare il modo di tornare ai negoziati diretti sospesi un anno fa dopo la ripresa della colonizzazione israeliana. In realtà , soprattutto i delegati americani, vogliono da Abu Mazen la rinuncia all’iniziativa all’Onu. E nelle scorse settimane il Congresso Usa ha minacciato il taglio dei finanziamenti americani all’Anp se i palestinesi andranno avanti unilateralmente verso l’indipendenza.

Le indiscrezioni che corrono in questi giorni dicono anche che Abu Mazen si lascia aperta la «via d’uscita» di una ripresa immediata delle trattative ma, spiegava ieri il portavoce dell’Anp Ghassan Khatib, «una condizione essenziale era e resta la cessazione totale delle nuove costruzioni nelle colonie ebraiche edificate illegalmente da Israele nei territori occupati». Condizione che il governo di Benyamin Netanyahu non ha alcuna intenzione di rispettare. Sarà  proprio il premier israeliano a rappresentare Israele alla sessione dell’Assemblea Generale che si aprirà  a New York la prossima settimana. Ribadendo la sua netta opposizione all’iniziativa palestinese, ieri Netanyahu ha affermato che la pace deve «passare solo attraverso il negoziato diretto e non essere imposta». Il primo ministro israeliano tralascia il particolare certo non insignificante che a 20 anni dalla conferenza di pace di Madrid e a 18 dalla firma degli accordi di Oslo, i palestinesi non hanno ottenuto nulla al tavolo delle trattative mentre le colonie illegali nel frattempo hanno continuato ad espandersi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Senza dimenticare la vuota promessa «di soluzione entro un anno» fatte nel 2010 dal presidente americano Barack Obama. Il quotidiano saudita al Sharq al Awsat ieri riferiva che gli Usa starebbero cercando di ottenere al più presto una dichiarazione ufficiale del Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Russia, Onu e Ue) volta a bloccare l’iniziativa palestinese alle Nazioni Unite.
La popolazione dei Territori occupati da parte sua guarda con crescente preoccupazione ai preparativi dell’esercito di occupazione in vista della presentazione all’Onu della richiesta palestinese. I coloni sono stati ulteriormente armati e dai loro siti d’informazione fanno sapere di essere pronti anche all’uso della forza in caso di manifestazioni popolari dirette verso gli insediamenti israeliani. «L’allarme sulle violenze palestinesi è pura propaganda volta a far apparire Israele vittima di una escalation voluta dagli arabi e dai palestinesi. Tutte le manifestazioni previste nei prossimi giorni saranno non violente e Netanyahu lo sa bene», ci ha detto Mustafa Barghouthi, esponente di punta della società  civile palestinese ed ex candidato alle presidenziali del 2005. A Barghouthi abbiamo rivolto qualche domanda sul dibattito interno in vista della proclamazione di indipendenza.
Mancano pochi giorni alla realizzazione del passo palestinese all’Onu. Lei come lo vede?
È ovvio che tutti i palestinesi vogliono l’indipendenza e la libertà  dopo decenni di occupazione. Tuttavia occorre ragionare sull’iniziativa lanciata da Abu Mazen e dall’Anp. Dobbiamo interrogarci se si tratta di una mossa tattica o di un progetto strategico. La tattica non risolve i nostri problemi, serve soltanto a raggiungere obiettivi immediati ma senza futuro. Ben diverso è il discorso se dietro questa iniziativa c’è una strategia ben precisa per la nascita dello Stato di Palestina che, a mio avviso, non può non passare per il pieno coinvolgimento dei comitati popolari, dei movimenti contro il Muro israeliano, delle associazioni che attuano il boicottaggio di Israele e delle sue colonie israeliane sino a quando i palestinesi non saranno liberi. Non basta elaborare un piano ufficiale di costruzione dello Stato di Palestina (come quello messo a punto dal premier dell’Anp Salam Fayyad, ndr), occorre rendere protagoniste tutte le componenti della società  attive da anni nella lotta contro l’occupazione e per la nostra indipendenza.
È un riferimento alla linea di Abu Mazen che non pochi accusano di aver fatto tutto da solo?
Ciò che voglio dire è che la legittimità  di qualsiasi piano per l’indipendenza e la libertà  non può reggersi solo sul consenso popolare ma deve poggiare anche sulla partecipazione più ampia possibile della società  palestinese. Non può non tenere conto dell’importanza vitale, in una fase delicata come questa che stiamo vivendo, dell’unità  nazionale palestinese che purtroppo non abbiamo più (dopo lo scontro violento nel 2007 tra il partito di Abu Mazen “Fatah” e il movimento islamico Hamas che ora controlla Gaza, ndr).
Abu Mazen garantisce che l’accettazione all’Onu dello Stato di Palestina nei territori di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est non significherà  la fine dell’Olp e la rinuncia al diritto al ritorno per i profughi palestinese.
È quanto si aspettano i palestinesi da qualsiasi leadership.
Lei da anni è un protagonista della lotta popolare non violenta contro l’occupazione. Una lotta che l’ha portata spesso a manifestare assieme a pacifisti israeliani. Si attende nei prossimi giorni una presa di posizione a favore dell’indipendenza palestinese da parte dei leader delle principali organizzazioni pacifiste israeliane.
In tutta sincerità  dubito che ciò avvenga. Ho sempre ritenuto importante la partecipazione delle componenti democratiche della società  israeliana alla battaglia per la realizzazione dei diritti palestinesi e contro l’apartheid che Israele gradualmente realizzando nei Territori occupati. Purtroppo in questi ultimi tempi la maggioranza di coloro che in Israele si proclamano pacifisti è rimasta lontana da noi. Allo stesso tempo si sono avvicinati ai palestinesi piccoli gruppi di pacifisti israeliani che con sincerità , posizioni politiche ben chiare e grande forza di volontà  si battono con noi contro l’occupazione e la negazione del diritto internazionale. Sono soprattutto giovani e mi auguro che possano diventare più influenti e importanti in Israele.

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GIORDANIA
Timore di manifestazioni, Tel Aviv richiama l’ambasciatore per un lungo week-end

 Schieramento senza precedenti di forze di sicurezza giordane ieri intorno all’ambasciata di Israele ad Amman, per le manifestazioni annunciate da attivisti locali per chiedere la sua chiusura. Mercoledì l’ambasciatore e tutto il personale diplomatico hanno fatto ritorno a Tel Aviv su ordine del governo Netanyahu (nella foto reuters). «La rabbia contro Israele sta rapidamente crescendo a causa dei suoi crimini in Palestina e altrove», ha detto Hamzeh Mansour, segretario del Fronte islamico d’azione. «Il popolo giordano non vuole avere rapporti normali con il nemico», ha spiegato Mansour. «Il nemico sionista è più isolato in seguito alla Primavera Araba, sente che la sua esistenza non è più sicura e stabile, soprattutto dopo quello che è successo al Cairo la scorsa settimana», ha concluso il leader islamista riferendosi all’assalto subito dall’ambasciata israeliana in Egitto.

Il rientro precipitoso dell’ambasciatore in Israele, ripreso ampiamente dall’informazione mondiale, sembra avere finalità  anche mediatiche oltre che di sicurezza. È avvenuto infatti con un giorno di anticipo sulla norma che già  prevede che chi lavora nella sede diplomatica ad Amman non resti in Giordania durante il week-end. La protesta anti-israeliana, organizzata attraverso Facebook, dovrebbe protrarsi per tutto il fine settimana ma la partecipazione reale non dovrebbe essere superiore ad alcune centinaia di persone. Intanto ieri il primo ministro egiziano Essam Sharaf ha detto che l’accordo di pace di Camp David con Israele non è intoccabile e può essere soggetto a discussione o cambiamenti se ciò va a vantaggio della regione o aiuta la pace. «L’accordo di Camp David non è sacro ed è sempre suscettibile di discussione, se questo dovesse servire alla regione o dare slancio a una pace giusta – ha spiegato Sharaf alla televisione turca – Potremmo apportare dei cambiamenti, se necessari».


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