Non più solo la voce di Wall Street. La rete globale delle agenzie
Tutti e due operano sotto la supervisione di David Beer, l’americano che guida la divisione «Sovereign Debt» dell’agenzia di rating: l’uomo che un mese e mezzo fa affrontò l’ira del Congresso Usa per la «tripla A» strappata al debito federale. A loro replicò invitandoli a cambiare rapidamente registro nella gestione della finanza pubblica, se non vogliono che gli Stati Uniti vadano incontro a un secondo declassamento.
S&P’s in passato ha certamente commesso errori a raffica nella valutazione di banche e società finanziarie e, alla vigilia del crollo di Wall Street del 2008, diversi suoi analisti (come dimostrato anche dalle indagini condotte su mandato del Congresso Usa) hanno tenuto un comportamento poco trasparente e in qualche caso addirittura sconsiderato.
Nel caso del «downgrading» italiano, come in quello degli Usa, è quindi di certo lecito porsi domande sulla validità di un’analisi che mescola valutazioni basate sui numeri oggettivi della realtà economiche a considerazioni su limiti ed errori delle decisioni politiche adottate dai governi. Considerazioni che, per la loro stessa natura, non possono che avere un grado assai inferiore di oggettività . Ma cercare di esorcizzare un’analisi che in gran parte coincide con quella Fondo Monetario Internazionale (e che, ahimè, verrà probabilmente presto condivisa anche da Moody’s) bollandola come frutto di pregiudizio politico quando non di «oscura manovra», è insensato e pericoloso. Eppure è quello che hanno fatto ieri governo, politici della maggioranza, telegiornali e anche alcune associazioni dei consumatori.
Inveire contro la «cupola del rating», parlare di «rapporti sfornati a orologeria», invocare l’indagine della procura di Trani, sostenere che S&P’s e le altre agenzie di rating non hanno diritto di emettere giudizi sull’Italia e non sono abilitate a operare in Europa perché prive della necessaria autorizzazione dell’Esma, l’authority di controllo, ha del grottesco. Ieri Standard & Poor’s ha precisato di aver avuto conferma dall’Esma di poter continuare a operare regolarmente mentre vanno avanti le procedure di registrazioni previste dalle norme Ue.
Ma il punto non è cercare di capire se la multinazionale del rating ha compilato tutti i moduli ed ha avuto tutti i timbri a secco previsti da una procedura autorizzativa. Chi ragiona così finisce per dar ragione agli analisti anche quando formulano valutazioni politiche perché dimostra di non aver capito che il mondo nel quale viviamo — che ci piaccia o no, e forse ci piace sempre meno — è cambiato. In modo irreversibile. La globalizzazione, coi suoi vantaggi e le sue distorsioni, è ormai un fatto acquisito, alimentato non solo dal liberismo economico dell’ultimo ventennio, ma anche dalle tecnologie digitali che hanno demolito, una dopo l’altra, le barriere fisiche e dalla prorompente volontà di crescere della vasta umanità dell’ex Terzo mondo. Un universo ora in buona parte emerso e proteso a conquistare una nuova prosperità .
Una globalizzazione che non riguarda più solo prodotti servizi e competizione tra vari bacini di lavoratori, ma anche il risparmio e i relativi giudizi di rischio che vengono formulati. Se non si vede questo, se si continua a parlare di congiure, se pensiamo ancora una volta di poterci rifugiare furbescamente in qualche logica di bottega, finiamo per non capire. Perdiamo il contatto con realtà nuove e magari insidiose che meriterebbero risposte ben più sofisticate.
Oggi ce la prendiamo con S&P’s, ma abbiamo già dimenticato che ieri, quando la Deutsche Bank ha fatto un passo indietro sui Btp, il nostro stupore per il venir meno della «solidarietà europea» si è infranto su una scoperta: a decidere gli investimenti dell’istituto tedesco è un banchiere indiano. Che vuole essere un leader della finanza globale, non certo un guardiano del «modello sociale europeo»
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