Post 11 settembre. L’America volta pagina

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Si deposita come una polvere sottile sui ruderi delle commemorazioni dieci anni dopo: la polverina del languore, della stanchezza, diciamo pure la parola empia, della noia, che cala sulla straripante commozione ufficiale. Qui la chiamano «anniversary fatigue», che non è fatica fisica, ma spossatezza morale da ricorrenze e cerimonie che nel momento culminante del decennale, stanno cercando di spremere troppe lacrime, troppi discorsi, troppi opportunismi. Persino il sindaco della città  “martire”, Michael Bloomberg mostra segni di insofferenza e si chiede se non sia arrivata l’ora di rinunciare almeno alla lettura pubblica dei nomi delle vittime, a partire dall’11 settembre 2012. C’è chi sostiene che la disfatta di Rudy Giuliani, il sindaco canonizzato sulle rovine, nelle presidenziali del 2008 nascesse anche dal suo ricorso costante a quel giorno.
Nel cratere divenuto cantiere e che nel suo essere un vuoto ricorda il concetto rivoluzionario del monumento di Washington ai morti in Vietnam scavato nella terra, insieme con l’acqua della cascata artificiale, affonda una commemorazione ciclopica che potrebbe risucchiare tutte le commemorazioni future, una sorta di gran finale. L’America è una nazione che ha il culto del domani, e che l’11 settembre ha tentato di stravolgere costringendola a guardare all’indietro, a voltarsi verso il passato. È una giornata di sentimenti ambigui, questa in arrivo, dove una nazione costruita sul futuro deve tornare al passato. Senza neppure essere certa che sia passato per sempre. La «guerra al terrore» che dalla voragine scaturì, continua e continuerà .
Il giorno che «ha cambiato tutto» sta cambiando anche se stesso e il rapporto che l’America prima e il mondo poi con essa ha con quell’evento. Per chi non ha perduto qualcuno sotto l’acciaio e il cemento, l’eredità  dell’11 settembre sono due guerre, sono un’America che si era illusa di inaugurare un nuovo secolo di dominazione e ora arranca per non perdere posizioni, una crescente diffidenza, se non aperta ostilità , verso le istituzioni e la politica che le incarna. Nelle ore successive all’orrore, tutti si strinsero attorno al proprio presidente, a Bush, divenuto sciamano e insieme angelo vendicatore.
Ma con lo stesso slancio che spinse oppositori e sostenitori a dimenticare la propria partigianeria, ora la folla ansiosa si è sciolta. Non c’è più nessuno, da Obama a Wall Street, dal Congresso alla magistratura (specialmente dopo casi umilianti come il «reality show» di Strauss-Kahn) che goda ancora di prestigio e di credibilità  forti. Sopravvivono, ultimo totem, i militari, le forze armate, che concentrano la gratitudine e la solidarietà  nazionale. Fin troppo, rischiando di creare quello che la repubblica americana non aveva mai conosciuto: una casta in uniforme, distaccata dal resto della società  che la venera ma la tiene a distanza, purché a combattere siano sempre i figli degli altri. Forse il monumento più eloquente, e purtroppo vivo, a questo cambiamento è il nuovissimo ospedale costato 31 milioni per feriti di guerra, nel corpo e nell’anima, che in queste ore viene inaugurato a Fort Campbell, nel Kentucky. Dalla Seconda guerra non era stato più usato.
Non è il «complottismo» ad avere intossicato il ricordo e avvelenato la commozione collettiva con la polvere del dubbio, perché la carica di antiamericanismo che anima i cospirazionisti dell’11 settembre, qui non ha mai attecchito in profondità . Né la «anniversary fatigue» o la stanca indifferenza verso le due guerre che hanno sventrato i conti nazionali costando finora, secondo i calcoli mai contestati del Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, tre mila miliardi di dollari, hanno generato il movimentismo antigovernativo e pacifista che scosse le istituzioni negli anni ‘60 e ‘70. I quasi 500 mila soldati feriti, che per decenni a venire peseranno sui bilanci nazionali e affollerano centri di riabilitazione come quello del Kentucky, i seimila caduti nei due fronti afgano e iracheno, le decine, o più probabilmente centinaia, di migliaia di caduti «collaterali» e spesso tanto innocenti come i tremila uccisi nelle due Torri, al Pentagono o sul volo precipitato in Pennsylvania, sono lontanissimi, altro da sé. Un cambiamento sicuro, e angoscioso, partorito da quel giorno è che l’America, come ha osservato Greg Jaffe sul Washington Post, è diventata indifferente alle proprie guerre. Ha imparato a vivere in uno stato di guerra continua.
È proprio il sospetto della stanchezza, l’odore della polvere della noia, che hanno spinto l’ufficialità  politica, istituzionale, governativa, giornalistica, persino sportiva, a lanciare una campagna di rimembranze a tappeto. Discorsi inseguiranno discorsi, tutti largamente prevedibili nel contenuto e nei toni. La Lega nazionale del football, oggi lo sport incomparabilmente più seguito e atteso, ha scelto proprio domenica 11 settembre per cominciare il campionato. Neppure gli spettatori ansiosi di azioni e di epopee agonistiche sfuggiranno a cerimonie commemorative pre-partita, ma le cerimonie finiranno tutte prima delle 13, l’ora del fischio d’inizio.
Le reti televisive, dalle maggiori a quelle di nicchia, stanno inondando i teleschermi di speciali, inchieste, docufilm, rievocazioni, più belle o meno belle, ma tutte inevitabilmente simili. Il critico televisivo del Washington Post, Hanks Steuver, ha tentato di vederli tutti e di elencare le emittenti: The Learning Channel TLC, History, Smithsonian, Showtime, Nickelodeon, PBS, Nbc, Abc, Cbs, Cnn, Fox News Channel, Msnbc, Investigation Discovery, Univision, e anche Animal Planet, la rete degli amici degli animali, con l’11 settembre visto dai cani coraggiosi che persero la vita nelle ricerche a caldo o mesi più tardi per le malattie contratte respirando le polveri. E poi si è arreso. «Allarme rosso per eccesso di lacrimosità », ha scritto.
C’è chi s’infastidisce anche alla divorante autoreferenzialità  di New York, al racconto dell’11 settembre come se gli assassini dirottatori avessero colpito soltanto le due Torri, e i morti del Pentagono, i passeggeri dell’aereo schiantato in Pennsylvania, fossero «martiri» di seconda categoria, condannati alla marginalità  dalla colpa che nel mondo dei media non perdona: la mancanza di immagini. Anche il terrorismo, anche la commozione e l’emozione, devono rispondere, come ben sapevano gli organizzatori e gli esecutori dell’attacco, alla legge della televisione: sono la visibilità  e la riproducibilità  all’infinito delle immagini a renderla spaventosa.
Soltanto per i parenti, i vedovi e le vedove, i genitori, i figli delle vittime, la «anniversary fatigue» non si avverte. Anche per coloro che sono riusciti a cicatrizzare la ferita, magari a risposarsi, a ricominciare una vita non più aggrappata all’altarino domestico con i fiori freschi sotto il ritratto della figlia polverizzata fra i morti, la paura dell’oblio s’insinua. Molti hanno reagito violentemente all’ipotesi di non fare più l’appello ad alta voce dei tremila morti, nomi che per loro sono l’unico istante di resurrezione, altri si sono rassegnati al destino dei parenti dei caduti in Vietnam, i vecchi che vanno ad accarezzare i nomi degli amici e dei figli perduti, incisi nelle lastre di marmo a ricopiarli su un foglio di carta.
A Washington, a quel monumento è stato risparmiata la vergogna dello sfruttamento commerciale. Riuscirà  Manhattan a non trasformare il memoriale, il parco con la piscina del vuoto, la Freedom Tower che sta alzandosi di un piano alla settimana verso il completamento nel 2013, a scampare all’inferno del «gift shop», del souvenir, e del baracchino di felafel e hotdog con i krauti? O invece sono proprio loro, gli immigrati che spingono i carriolini del cibo da strada, il vero monumento allo «Spirit of America»?
È diventata più cinica, o almeno più scettica, l’America che aveva saputo trasformare la carcassa della corazzata Arizona affondata nell’acqua di Pearl Harbor in un tempio sommerso, che ha fatto del campo di battaglia di Gettysburg, in Pennsylvania, il macello umano che decise la Guerra civile, terra sacra, ma quando l’esito di quelle guerre era acquisito. Ne ha cambiato lo spirito? La domanda che inquieta questo decimo anniversario che potrebbe essere l’ultimo con tanta solennità  ufficiale è sapere dove quell’evento abbia portato la nazione. È un’America più luminosa, più convinta del proprio «soft power», della capacità  di attrazione morale, culturale e civile, quella che ha saputo sopravvivere all’11 settembre, o è un’America prigioniera del proprio «hard power», della forza dura delle proprie armi, il solo terreno nel quale la sua superiorità  resti indiscussa? Forse la polvere della noia nasconde una paura più profonda e ancora più tossica, quella di avere perduto la guerra della supremazia morale, nella palude della guerra continua e interminabile. Dopo l’11 settembre, è divenuto molto più «fatiguing», molto più faticoso, essere tutti americani.


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