Quando i padri salvano i figli dall’incubo-crisi

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Piano a parlar male dei bamboccioni. O a coltivare, come il ministro Brunetta, l’idea di una legge che obblighi i ragazzi a lasciare la casa di papà  e mamma a 18 anni. Si rischia di compromettere la fabbrica sociale del Paese e, forse, anche la pace nelle piazze. La crisi, infatti, morde: i consumi si assottigliano, i redditi scendono, i risparmi si sgonfiano, l’economia ristagna. Siamo, probabilmente, arrivati sul crinale di un autunno fra i più bui della storia recente. Se le fabbriche come l’Irisbus cominciassero a chiudere, le banche in crisi a tagliare posti di lavoro, Comuni e Province con le casse vuote a scaricare personale, se i licenziamenti facili previsti dalla manovra del governo diventassero prassi corrente e i rubinetti dell’assistenza agli anziani si prosciugassero, gli effetti potrebbero essere devastanti.
A tamponare, almeno fino ad ora, l’impatto della crisi, infatti, è stato soprattutto quel welfare all’italiana, i cui tratti vengono solitamente indicati come il segno della scarsa modernità  del Paese. Ovvero, la famiglia. Non, però, quella di cui parlano spesso i cattolici, cioè la famiglia presente e futura. Ma quella passata. In due parole, la rete di protezione è stata finora assicurata dal lavoro di papà , titolare di un vecchio contratto di lavoro a tempo indeterminato. Di fatto, per ora, illicenziabile.
I protagonisti della crisi sono, infatti, i giovani che si sono affacciati negli ultimi anni al mercato del lavoro: quelli fra i 25 e i 34 anni. Quella generazione è stata oggetto di un gigantesco esperimento sociale, in nome della flessibilità  del lavoro. Fra il 1995 e il 2007, il numero dei contratti a termine è aumentato, in media, del 7 per cento l’anno. Il risultato è che, nel 2008, all’alba della crisi, nelle grandi regioni produttive del Nord (Lombardia esclusa) la quota dei contratti vecchio stile, a tempo indeterminato, si era ridotta al 23 per cento del totale delle assunzioni. Nel 2010, era ulteriormente scesa al 15 per cento: il resto, part time o co.co.co. Ma la flessibilità , come è noto, è a due vie: niente di più facile che licenziare uno che non si è mai veramente assunto. Tanto più nell’esperimento italiano che, in termini di protezione del lavoratore precario, si colloca ad un estremo negativo, assolutamente eccezionale.
Nei Paesi dell’Ocse, l’organizzazione delle Nazioni industrializzate, il grado di protezione contrattuale e sociale, fra il 1995 e il 2007, si è ridotto su una scala da 0 a 6, di meno di mezzo punto. In Italia, di 3 punti e mezzo. Il risultato, con l’arrivo della crisi, è stata un’ondata di licenziamenti. Fra il 2008 e il 2009, il 23,9 per cento dei giovani precari dell’industria è stato rimandato a casa e ancora il 3,6 per cento fra il 2009 e il 2010. Nei servizi, il taglio è stato del 10,7 per cento nel 2009 e, in più, un altro 2,8 per cento l’anno dopo.
Una mattanza. Il tasso di occupazione misura il numero di occupati rispetto al totale dei coetanei: fra il 2004 e il 2010, dice l’Istat, il tasso di occupazione, per i giovani fra i 25 e i 34 anni, è crollato dal 70 al 65 per cento. Cinque punti, una percentuale enorme, oltre mezzo milione di persone che, nel 2004 avrebbero trovato lavoro e che, oggi, non ce l’hanno. Dove sono finiti? Com’è che non hanno finora ingrossato le statistiche dei senzatetto? La risposta è semplice: sono rimasti – o sono tornati – a casa dei genitori. Una scelta facile: basta guardare a cosa è successo ai loro fratelli maggiori che da casa se ne sono andati e hanno messo su famiglia. La quota più consistente di famiglie sotto il livello ufficiale di povertà  (circa mille euro al mese in due) è quella in cui il capofamiglia ha fra 35 e 44 anni. Così, il numero dei bamboccioni si è gonfiato. Nel 1995, il numero di giovani fra i 25 e i 34 anni che vivevano con almeno un genitore era pari al 35,5 per cento del totale. Nel 2009 eravamo schizzati al 42,4 per cento. Il fenomeno è massiccio, soprattutto per i maschi: eravamo al 44,5 per cento nel 1995, siamo saliti oltre la metà  (52 per cento) nel 2009: si va dal 45 per cento del Nord Est a quasi il 60 per cento nel Mezzogiorno. In cifre, fa anche più impressione: ci sono, in Italia, oltre due milioni di giovanotti che, ogni sera, vanno a dormire in quella che era la stanza dei bambini.
Le alternative, d’altra parte, sono poche. E, almeno fino al 2009, la rete di protezione della famiglia ha funzionato. Grazie a due fattori chiave. Il primo è la casa (dei genitori). L’80 per cento degli italiani vive in una casa che possiede e questo – se, come è probabile, papà  ha ormai finito di pagare il mutuo – taglia una voce importante di bilancio ed esclude il pericolo di finire in mezzo alla strada. Il secondo è ancora papà , più esattamente il suo stipendio. Lo si vede con chiarezza in una ricerca della Banca d’Italia, che esamina il problema occupazione, guardando alle famiglie, piuttosto che agli individui: in sostanza, contando le famiglie in cui (tolti bambini, studenti, pensionati) ci sono solo adulti che potrebbero lavorare, ma sono disoccupati.
Sono tante, troppe. Già  nel 2009, ogni 6-7 famiglie italiane, ce n’era una in cui nessuno ha un posto di lavoro: due milioni e mezzo di famiglie, dove, presumibilmente, si va avanti con la pensione del nonno o qualche assegno sociale. Di mezzo, ci sono 750 mila bambini. E la situazione peggiora in fretta: fra il 2008 e il 2009, quando la crisi era appena iniziata, erano aumentate del 10 per cento. Un dramma sociale. Tuttavia, notano i ricercatori di Via Nazionale, meno vasto di quanto potrebbe essere. A guardare il tasso di disoccupazione e le esperienze degli altri Paesi europei, infatti, le famiglie senza lavoro dovrebbero essere di più. Invece, sono meno di quanto le proiezioni statistiche suggerirebbero.
Perché? Anzitutto la famiglia italiana (come, non a caso, quella spagnola) è diversa da quella inglese, francese, tedesca. Il numero dei single italiani – la categoria più a rischio di risultare una famiglia senza lavoro – cresce velocemente, ma la loro quota è ancora bassa, rispetto al resto d’Europa. E la famiglia allargata assai più diffusa: il 17 per cento delle case italiane ha almeno tre adulti in età  di lavoro, contro il 6-8 per cento in Francia, Germania, Gran Bretagna. Risultato? In Italia, il numero di adulti privi di occupazione arriva al 35 per cento, molto più alto che per francesi, tedeschi e inglesi, che si fermano al 20-25 per cento. Ma il numero di adulti che vivono in famiglie senza lavoro è più o meno uguale: il 10 per cento. In altre parole, se il tasso di disoccupazione si distribuisse a caso fra le famiglie e queste fossero simili al resto d’Europa, le case senza lavoro sarebbero molte di più. Invece, una buona fetta degli italiani senza lavoro vive in case in cui entra almeno un altro stipendio.
Non è, per lo più, quello della moglie. E’, invece, conferma la Banca d’Italia, quello di papà . Fra il 2008 e il 2009, il tasso di occupazione è sceso di 1,2 punti. Ma solo di 0,3 punti per i capifamiglia: il resto riguarda i figli conviventi. E’ il bilancio della mattanza dei precari: i figli rappresentano un quinto del totale degli occupati, ma il 70 per cento di quelli che non hanno un lavoro. Fra il tasso di disoccupazione dei figli fra i 30 e i 40 anni e i padri capifamiglia c’è un abisso di cinque punti. Per questi quarantenni, condannati a restare nella stanza in cui giocavano con l’orsacchiotto e il fucile spaziale, le prospettive sono buie. Difficilmente troveranno un lavoro, a stare all’esperienza di chi il naso fuori di casa lo ha messo e si trova, adesso, in condizioni assai più disperate: quattro famiglie senza lavoro su cinque non vedono buste paga da più di un anno.
I dati della Banca d’Italia si fermano al 2009. La crisi ha già  avuto altri 20 mesi per aggravare la situazione e scardinare questa rete, approssimativa e casereccia, di protezione sociale. La casa resta di proprietà , ma, adesso, anche lo stipendio di papà  traballa. E sappiamo che, rispetto al 2009, anche il terzo e ultimo salvagente è sempre più sgonfio. E’ il risparmio, di cui, in base alle medie statistiche, gli italiani sono, tradizionalmente, ben forniti. A metà  2008, gli italiani mettevano da parte il 16 per cento del loro reddito. All’inizio del 2011, riuscivano ad accantonare solo l’11,5 per cento. Se prima risparmiavano quattro euro, nel giro solo di un anno e mezzo si sono ridotti a tre. E’ una media, naturalmente. Significa che molti, ormai, sono a secco. Come se un timer, sullo sfondo, ticchettasse sempre più forte.


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