Romano, la sfiducia non passa Regge il patto tra Pdl e Lega

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ROMA — Era entrato in Aula col viso contratto, umiliato da una mozione di sfiducia «odiosa» e preoccupato per il futuro della sua prole: «Io e la mia famiglia abbiamo subìto una campagna diffamatoria ed è paradossale che i tre figli di un ministro vogliano andare via dall’Italia». Ma poi, non appena in Aula i sei radicali del Pd annunciano che non voteranno, Saverio Romano sorride, si alza dagli scranni del governo dove era rimasto quasi immobile per due ore — plasticamente isolato — ed entra in Transatlantico, così sollevato e contento che non si stanca di baciare un deputato dopo l’altro.

La sfiducia presentata da «Franceschini e altri» contro il ministro dell’Agricoltura è stata respinta con 315 voti. Mentre la minoranza si è fermata a 294: assenti Commercio e Lo Monte dell’Mpa, il finiano Tremaglia e la democratica Marianna Madia che ha partorito da due giorni. A nulla è valso il soccorso alle opposizioni del repubblicano Francesco Nucara, né il non-voto dell’ex finiano Antonio Buonfiglio (Pdl) e dell’ex amico di Romano, Calogero Mannino. Sei gli assenti del Pdl, tra cui Angeli, Armosino e Versace. Cristaldi, e Franzoso sono malati, Papa è in carcere. Ma la Lega mantiene i patti e contribuisce a salvare il ministro siciliano, imputato per associazione di stampo mafioso. La maggioranza regge, anzi si rafforza. Tanto che Berlusconi, conteggiando gli assenti, vede l’agognata «quota 325». E persino l’ex ministro Claudio Scajola esce esultando: «L’abbiamo sfangata».

«Festeggiare? E Perché? Ho tanto da lavorare — commenta a caldo Romano al termine di una seduta burrascosa —. Ora c’è tanto spazio per fare le riforme e portare a termine la legislatura». E se arriva il rinvio a giudizio? «Sono assolutamente convinto — risponde dopo diversi secondi di silenzio — che i giudici del nostro Paese siano assai qualificati». In Aula però, dove si è difeso ricorrendo alla sua esperienza di avvocato, il leader del Pid si scaglia contro la magistratura: «L’ordine giudiziario ha soverchiato il Parlamento e ne vuole condizionare le scelte». Con freddezza, parlando alle menti più che ai cuori, denuncia la «campagna di aggressione» di cui si è sentito vittima e contesta la «disinformatia» della stampa: «Io e i miei famigliari siamo incensurati fino alla settima generazione». I banchi del Pdl sono mezzi vuoti e nessun ministro sembra voler prendere posto al fianco di Romano. Lo farà  Bossi, per poi volgergli le spalle e parlare fitto con Tremonti.

«Io isolato? Macché! — smentisce Romano —. I ministri giravano tra i banchi e Berlusconi, anche se non era in Aula, è rimasto alla Camera fino all’ultimo». Ad averlo deluso, giura, non sono i colleghi del governo bensì i centristi dell’Udc, che aveva provato a convincere a non sfiduciarlo: «Casini? Provo una grande amarezza. Oggi si è definitivamente disperso il patrimonio del garantismo democristiano». Per Di Pietro, che sventola un manifestino contro la «Lega Poltrona», aver salvato dalle dimissioni l’ex centrista è «un attentato alla Costituzione». In Aula si è visto (e sentito) di tutto. I finiani che alzano cartelli «Alla faccia della LEGAlità ». I deputati del Pdl che gridano «traditore!» a Casini. Il leghista Fogliato che si lancia in una dichiarazione di voto teatrale, in cui parla solo di agricoltura tra i lazzi e gli strali delle opposizioni. Una seduta tanto «surriscaldata» che Casini invita a stendere un «velo pietoso». E il presidente Gianfranco Fini cala il sipario: «È iniziata la campagna elettorale».


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