Tremonti si vende tutto
ROMA. Dopo gli annunci delle scorse settimane su un possibile «shopping» dei cinesi in Italia, e il braccio di ferro con il premier Silvio Berlusconi sulla gestione delle prossime (eventuali) privatizzazioni, ieri il ministro dell’Economia Giulio Tremonti – particolarmente sbattuto in seguito al caso Milanese e cercando di riprendere piede nella querelle sulla successione di Mario Draghi a Bankitalia – ha fatto un «inventario» del patrimonio pubblico: praticamente, quello che si potrebbe vendere per far fronte al crescente debito dello Stato e per trovare risorse fresche.
Un’operazione politica, il seminario sul Patrimonio statale svolto a porte chiuse nel Parlamentino del ministero di via XX Settembre, che dovrebbe riaccreditare Tremonti come il «salvatore della patria», grazie al fatto che avrebbe trovato l’uovo di Colombo per ridare ossigeno alle esauste casse pubbliche e soprattutto più credibilità all’Italia sui mercati, dimostrando che il nostro debito non è detto che rimanga eternamente elevato e anzi si può ristrutturare. Ecco infatti la «rivelazione», diffusa per bocca dello stesso ministro a mezzo comunicato stampa: «Abbiamo scoperto – spiega – che nell’attivo del bilancio dello Stato c’è un numero uguale a quello del passivo. Il passivo è il debito sul mercato, l’attivo è ancora fuori dal mercato e in decenni è diventato una specie di “manomorta” pubblica. Da questa enorme quantità di beni può venire fuori ricchezza per tutti».
Le cifre sono state rese pubbliche grazie alle relazioni di due esperti, Edoardo Reviglio, capo economista della Cassa Depositi e Prestiti, e Stefano Scalera, direttore del dipartimento Attivo e Patrimonio dello Stato del ministero del Tesoro.
E in effetti, come ha detto Tremonti, passivo e attivo dello Stato più o meno si equivalgono: il debito pubblico nel 2010 ammontava a 1.843 miliardi di euro (ma attenzione: oggi è ormai di 1.912 miliardi), cioè circa 28 miliardi in più dei 1.815 miliardi di attivi. Il «patrimonio fruttifero», quello cioè che può essere considerato come gestibile per avere introiti (da vendite o da altri tipi di messa a frutto) è pari a 675 miliardi di euro. Il resto, 1100 miliardi di euro, è «infruttifero».
A gennaio 2012 dovrebbe essere realizzata la Sgr (società di gestione del risparmio), una sorta di contenitore dove verrà piazzato tutto ciò che dallo Stato potrà andare al mercato: era già prevista in manovra e attende l’autorizzazione di Bankitalia. In ogni caso, visto che non si può vendere tutto di botto, nei prossimi anni da tutte le possibili operazioni si potranno attendere al massimo 9,8 miliardi di riduzione del debito per anno. E Tremonti ha confermato di guardare proprio a questo fine: «Oggi prende avvio una grande riforma strutturale per la riduzione del debito e per la modernizzazione e la crescita», ha spiegato.
Il patrimonio dello Stato si divide in quattro grandi voci: crediti, immobili, concessioni e partecipazioni. «Si possono fare subito delle valorizzazioni» su 700 miliardi, ha spiegato Reviglio, mentre per i rimanenti 1.100 miliardi che non sono «immediatamente fruttiferi» c’è ancora «molto da lavorare» per una migliore gestione.
Nel dettaglio, le partecipazioni dello Stato nelle società valgono 44,8 miliardi di euro. Per le tre società quotate (Enel, Finmeccanica e Eni) il valore complessivo è di 17,3 miliardi, mentre per le non quotate è di 27,5 miliardi (nel calcolo non sono incluse le partecipazioni della Cassa Depositi e Prestiti). Sono 13.111 le società partecipate, dirette e le controllate, aumentate di ben 2491 negli ultimi sei anni.
Ci sono poi gli immobili: su un patrimonio totale di 500 miliardi potrebbe essere disponibile «da qui ai prossimi anni il 5-10%, cioè 40-50 miliardi di euro», ha detto Reviglio.
Le concessioni (ad esempio autostrade, spiagge, cave, demanio, porti, aeroporti) danno flussi annuali di 2, 7 miliardi annuali, di cui 1,8 vanno allo Stato. Le autostrade, ad esempio, rendono solo 120 milioni annui (di cui il gruppo Benetton verserebbe circa la metà ), ma rivedendo le concessioni si può arrivare a triplicare il flusso (da 2,7 a 8-9 miliardi). Bisognerebbe capire ovviamente di quanto salirebbero le tariffe. Quanto alle partecipate, si penserebbe nell’immediato a una quotazione di Bancoposta.
Delle 2700 utilities – cioè le municipalizzate tipo Acea – oltre la metà sono piccole, e solo 27 sono quotate. A parte la vendita, si punterebbe a «disboscare»: i soli 25 mila membri dei cda costerebbero 2,7 miliardi annui, personale che sale a 80 mila contando consulenti, amministratori e altre figure. Un milione sono gli appartamenti degli ex Iacp, ma il 40% non sono più (tra vendite e altri passaggi) catalogabili come case popolari.
Non si è parlato ieri di beni artistici e culturali, di monumenti, che si spera scampino (almeno loro) all’eventuale campagna vendite. «È in ogni caso improbabile – ha spiegato ancora Reviglio – che si ricorra come negli anni passati a strumenti finanziari tipo le cartolarizzazioni». Piuttosto si parlerebbe, insomma, di vendite dirette.
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1800 MILIARDI Tanto vale il patrimonio pubblico (azioni, aziende, immobili, crediti, diritti di concessione, ecc.). Pari quasi all’ammontare del debito pubblico (1.912 miliardi)
700 MILIARDI è la quota del patrimonio pubblico su cui si intende fare subito cassa. Tra i 40 e i 50 mld potrebbero venire dagli immobili il cui valore complessivo è sui 500 mld 9,8 MILIARDI è la stima della riduzione annua del debito pubblico che «il piano di valorizzazione» presentato al ministero del Tesoro prevede, a regime, dal 2020
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