Un premier allo sbando connivente e ricattato

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Lo si è visto venerdì scorso, quando cinque Banche centrali – la Fed americana, la Bce europea, la Banca d’Inghilterra, la Banca giapponese e quella svizzera – hanno inondato di liquidità  il sistema bancario europeo con prestiti in dollari a tre mesi per cifre illimitate. I mercati hanno respirato, le Borse sono ritornate in positivo, gli “spread” sono diminuiti. La via di salvezza è questa? Stampare moneta per tirare i Paesi fuori dalla recessione che li minaccia, magari a prezzo di scatenare l’inflazione?
No, non è questa la via e le Banche centrali lo sanno bene. L’inflazione a due cifre – che avrebbe il pregio di svalutare i debiti sovrani riducendoli a carta straccia – è l’imposta più odiosa perché è la più regressiva che possa immaginarsi, colpisce tutti i redditi fissi, stipendi, salari, pensioni, arricchisce i già  ricchi e impoverisce i ceti medi. Spezzerebbe definitivamente una coesione sociale già  indebolita da crepe profonde.
Le Banche centrali possono intervenire per fornire all’ammalato una boccata d’ossigeno in attesa che la terapia contro la malattia faccia il suo effetto. Purché la terapia sia appropriata e somministrata con tempismo nella giusta misura.
Questo discorso riguarda tutti i Paesi convinti dalla crisi, ma da noi, in Italia, esiste ed opera con sempre maggiore intensità  un altro elemento aggravante. Noi da tempo non siamo più governati. Da tempo il nostro Paese è scivolato agli ultimi gradini della credibilità  internazionale. Il “premier” che guida il governo è diventato una barzelletta, le cancellerie evitano di incontrarlo, le autorità  europee alle quali chiede l’elemosina di un incontro rifiutano di comparire insieme a lui nelle conferenze stampa.
Ci vorranno anni e anni prima di poter recuperare la perduta dignità , ci vorrà  un tenace lavoro di restauro delle istituzioni, occupate o insidiate da una vera e propria banda della quale il “premier” fa parte o dalla quale è sistematicamente ricattato.
In questi giorni la curiosità  dell’opinione pubblica è concentrata soprattutto sulla sfilata di prostitute o di “ragazze di vita” fornite da procacciatori su richiesta del presidente del Consiglio e avviate verso le sue residenze private e semi-pubbliche. Ma l’attenzione principale dovrebbe invece essere rivolta ai contatti sistematici del premier con alcuni lestofanti di professione, a cominciare da quel Lavitola che al tempo stesso lo serve e lo ricatta.
È certamente scandaloso che mentre il Paese attraversa la sua più grave crisi economica il premier confidi alle ragazze che gli si concedono di fare il capo del governo “a tempo perso”; è altrettanto scandaloso che passi il suo tempo di lavoro con i suoi avvocati per evitare i processi e soffocare le intercettazioni invece di studiarsi i dossier del debito, della disoccupazione, d’una economia che è ormai l’ultimo vagone del traballante treno europeo. Ma lo scandalo che non ha precedenti nella storia d’Italia è la connivenza del capo dell’esecutivo con una banda che esplicitamente mette le mani nella casse dello Stato, deturpa e stravolge le istituzioni, i pubblici appalti, le pubbliche imprese.
Connivente e al tempo stesso ricattato. Lavitola concerta con lui le promozioni nel comando della Guardia di finanza. Tarantini ottiene di essere presentato e raccomandato a Bertolaso per essere inserito tra gli interlocutori della Protezione civile. Le “ragazze di vita” vengono compensate con posti alla Rai o nei consigli regionali o addirittura in Parlamento. Imprese pubbliche come la Finmeccanica sono contaminate dalla corruzione che arriva fino ai vertici dell’azienda e ne influenza le scelte.
Tutto ciò avviene non solo sotto gli occhi con l’attiva complicità  della più alta autorità  di governo. Ma non soltanto, perché alcuni ministri non possono non sapere. Non può non sapere il ministro dell’Economia da cui la Guardia di finanza dipende e da cui dipendono le imprese pubbliche possedute dal Tesoro. Vero è che anche quel ministro non sta messo affatto bene; indipendentemente dall’esito della votazione che si svolgerà  tra pochi giorni alla Camera sulla richiesta d’arresto del deputato Marco Mario Milanese, il processo che lo vede coinvolto riguarda appunto il suo ruolo di controllore delle imprese pubbliche delegatogli in esclusiva dal ministro con tutto ciò che ne consegue, ivi compresi i suoi maneggi con i vertici della Guardia di finanza.
Esistevano due “lobbies” (così disse il ministro al nostro giornale poche settimane fa) in quel corpo così importante per la lotta contro l’evasione fiscale e contro la corruzione: una lobby faceva capo ad un gruppo di alti ufficiali con rapporti diretti con palazzo Chigi, l’altra con altri ufficiali con rapporti col ministro. Lo scandalo non consiste nell’esistenza di tali rapporti, che sono dovuti; consiste nel fatto che fossero contrapposti, come erano e sono contrapposti tra loro il “premier” e il ministro dell’Economia, contrapposizione non secondaria nella pessima gestione della crisi che ha richiesto cinque manovre finanziarie in due mesi, le ultime delle quali avvenute (per fortuna) su ordine della Bce come contropartita ai suoi interventi sul mercato dei titoli di Stato.
Questa è dunque la situazione in cui si trova il nostro Paese: il presidente del Consiglio collude con lestofanti che mirano ad ingrassare i loro portafogli con pubbliche risorse; con essi si dà  del tu, con essi scambia baci e abbracci, con essi programma appuntamenti e favori, li introduce nella pubblica amministrazione, interviene a proteggerli quando si sentono minacciati, li finanzia con denari contanti che non lasciano tracce, parla attraverso telefoni forniti di schede al riparo (così sperano) di intercettazione.
Ma quando la connivenza non basta, lui, il premier, viene messo “con le spalle al muro” col ricatto.
Un capo di governo ricattabile è un pericolo gravissimo, non sostenibile in nessun Paese del mondo. I magistrati di Bari sono stati finora prudenti: alcune intercettazioni assai sconvenienti verso capi di governo stranieri (Merkel, Sarkozy) non sono state allegate all’ordinanza comunicata alle parti, per evitare una vera e propria crisi diplomaticamente squalificante. Non toglie che quelle frasi sono state dette da un premier evidentemente fuori controllo.
Un personaggio in queste condizioni continuerà  a governare, con la maggioranza di Scilipoti fino al 2013?

* * *
Di tanto è crollata la credibilità  di Berlusconi (tutti i sondaggi la stimano ormai al 22 per cento contro il “no” del 78) e di altrettanto è cresciuta quella del presidente della Repubblica. Il quale, costretto e indotto dall’emergenza delle circostanze, ha interpretato con il consueto rigore e scrupolo ma anche con accresciuta fermezza i poteri che la Costituzione gli conferisce. L’abbiamo visto nella gestione della manovra finanziaria, l’abbiamo visto anche quando, appena qualche giorno fa, ha rifiutato di firmare il decreto che il premier reclamava per bloccare la pubblicazione delle intercettazioni effettuate dalla Procura di Bari.
Il Presidente conosce e ha sempre rispettato i limiti che la Costituzione pone all’esercizio delle sue prerogative. In occasione della sua partecipazione in videoconferenza al meeting dello studio Ambrosetti di alcuni giorni fa, Napolitano ha ricordato che in una democrazia parlamentare l’esistenza del governo non può esser messa in discussione fino a quando esista una maggioranza che lo sostiene. Soltanto quando quella maggioranza venisse meno il Capo dello Stato diventa il “dominus” della partita, per insediare un nuovo governo che possa ottenere la fiducia del Parlamento ovvero per sciogliere anticipatamente le Camere.
Questo pensa il Capo dello Stato ed è certamente nel giusto, anche se alcuni costituzionalisti sostengono che i suoi poteri sono ancora più ampi per quanto riguarda lo scioglimento anticipato della legislatura, forse dimenticando che il decreto di scioglimento richiede anche la firma del presidente del Consiglio.
Tutto ciò detto, il Capo dello Stato ha, per Costituzione, il potere di inviare messaggi al Parlamento su qualunque tema e in qualunque circostanza. Può anche esternare il suo pensiero in altri modi, comunicati, lettere, interviste; ma il modo solenne è quando rivolge il suo messaggio al Parlamento, cioè ai delegati del popolo sovrano.
Noi pensiamo che quel momento sia arrivato. Pensiamo che spetti al Presidente investire il Parlamento del problema della credibilità  del governo. Nel Parlamento ci sono le opposizioni ma c’è soprattutto la maggioranza ed è alla maggioranza parlamentare che un messaggio presidenziale sulla credibilità  del governo dovrebbe essere indirizzato.
So bene che il Presidente detesta essere “tirato per la giacca”. Noi non vogliamo affatto commettere quella scorrettezza. Ci limitiamo a segnalare che un passo del genere rientra perfettamente nelle sue prerogative. Ovviamente spetta a lui soltanto di decidere se utilizzare il suo diritto di messaggio su un tema così delicato, ma così capitale per le sorti stesse della democrazia.
Nella sua dichiarazione di voto sulla manovra, in nome del gruppo parlamentare del Pd, Walter Veltroni ha denunciato il pericolo dei giovani che nella piazza di Montecitorio gridavano “chiudete il Parlamento”. Tra i tanti rischi che corre la democrazia c’è anche questo: la spinta crescente contro le istituzioni democratiche.
Non saranno i mercati a farlo ma la persistenza dell’attuale governo a potenziare l’attacco ai titoli e alle Borse. Non sarà  la magistratura a stabilire le sorti del premier, ma la sua connivenza e ricattabilità  con chi soddisfa i piaceri che placano la sua malattia psichica. Perciò occorre che il Parlamento esca dall’apatia e dall’afasia. Il Capo dello Stato può stimolarlo a compiere i suoi doveri.


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