Accaparramento «responsabile»

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La crisi finanziaria degli ultimi anni, sommata a quella climatica, energetica e alimentare ha travolto definitivamente i già  fragili equilibri globali, e ha mandato in tilt anche gli assets tradizionali di investimento finanziario. Infatti ha spinto tutti, dalle vecchie istituzioni finanziarie internazionali ai nuovi attori, a diversificare il più possibile i propri investimenti per garantirsi guadagni.
E nulla oggi appare più redditizio della terra. La formula è presto detta: di cibo ci sarà  sempre bisogno, i prezzi resteranno elevati, la terra a buon mercato nel mondo è tanta e disponibile, il profitto è garantito. Il risultato? Grandi appezzamenti di terra nel Sud del mondo diventano l’investimento privilegiato per i molti attori sulla piazza, dagli interessi assai diversificati.
Ci sono paesi, come Arabia Saudita, Emirati Arabi o Libia, che non potendo sfamare il popolo col petrolio, hanno bisogno di esternalizzare la produzione di cibo e hanno cominciato a negoziare l’acquisto o l’affitto a bassissimo costo di enormi quantità  di terra nei paesi africani o sudamericani.
Ci sono poi le grandi multinazionali dell’agribusiness, sempre più interessate a investire in sterminate piantagioni per la produzione di biocarburanti, con la legittimazione politica, tra l’altro, degli obiettivi per il 2020 fissati dall’Unione europea sui biocarburanti.
C’è anche un esercito di società  finanziarie e di nuovi attori sui mercati finanziari, che dalla crisi del 2007 hanno imparato che bisogna assicurare i propri investimenti, e che non è più il «mattone» ma la terra a favorire ricavi sempre più alti e garantiti.
E però, se i migliori terreni agricoli diventano appannaggio di governi stranieri, imprese multinazionali e oscuri fondi d’investimento finanziari – se in altre parole la proprietà  della terra è sempre più privatizzata e concentrata nelle mani di pochi, cosa rimane ai piccoli produttori, oltre all’aumento del prezzo e alla scarsità  di cibo su scala locale, e al disastro ambientale che le ampie monoculture portano con sé? Eccoli dunque, i piccoli produttori di cibo, i sempre più poveri che la Banca Mondiale dovrebbe tutelare.
Ma qui accade l’inspiegabile. Proprio la Banca Mondiale, in palese violazione con il suo stesso mandato, sta di fatto favorendo gli investitori attraverso prestiti ad hoc e assicurazioni contro le perdite. E per oliare tutto il meccanismo sta anche costruendo attorno agli investitori non solo l’infrastruttura finanziaria, ma anche la legittimazione politica necessaria affinché questa valanga di investimenti fluisca senza intoppi.
Da una parte cerca infatti di persuadere i governi del sud del mondo a modificare le proprie leggi sulla proprietà  della terra in modo da renderle funzionali agli investimenti esteri; dall’altra si inventa i «Principi di investimento agricolo responsabile», i tristemente famosi Rai (l’acronimo in inglese). Si tratta di sette principi volontari a cui gli investitori possono decidere di attenersi quando stanno portando a termine un affare che riguarda l’acquisizione di ampie porzioni di terra agricola, che di fatto non sono altro che un tentativo maldestro di legittimare l’accaparramento di terre che priva i piccoli produttori di cibo del loro unico mezzo di sussistenza.
In altre parole, avanti tutta con l’accaparramento, ma «responsabile»!


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