Affari, petrolio e attentati i quarant’anni di potere del beduino rivoluzionario

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Con la morte di Muammar Gheddafi finisce un incubo. Non costituiva più una minaccia. Il potere era ormai in mano agli insorti, ma l’idea che la “guida”, onnipotente per quarantadue anni, si potesse aggirare ancora nel Paese con i suoi fedeli, armato e pieno di progetti tendenti a mettere a ferro e a fuoco Tripoli, Bengasi, Tobruk, creava angoscia, alimentava le voci sui presunti nascondigli.
Si diceva che il raìs vivesse in un bunker, nel cuore della capitale, sotto i piedi dei manifestanti che lo dileggiavano o lo maledicevano. E a un certo punto sarebbe spuntato fuori pronto a punire gli insolenti, che l’avevano applaudito per decenni. Altri lo immaginavano al sicuro, con i suoi petrodollari, in qualche paese africano. O nel deserto. Altri giuravano che l’onore beduino, l’orgoglio tribale, lo costringesse a restare con i suoi. A morire con loro. Avevano ragione. La mancata cattura di Gheddafi ritardava l’installazione definitiva dei nuovi governanti a Tripoli. Alcuni di loro restavano a Bengasi come se la capitale, con Gheddafi in libertà , fosse insicura. E così avanzava a rilento la preparazione del nuovo assetto democratico. Insomma, la guerra di liberazione sembrava incompiuta. Non erano in pochi ad auspicare un processo, che avrebbe avuto il valore di una catarsi. Ma per la fine dei dittatori non ci sono regole precise. Il caso, e se non il destino la ferocia del momento, che non risparmia i liberatori, diventa una sentenza. Spesso non auspicata. O non gradita. Il dopo Gheddafi può comunque cominciare.
UNO DI FAMIGLIA
Muammar Gheddafi? Era uno di famiglia. Perché non ammetterlo? La storia fa questi scherzi, intreccia destini in apparenza senza nulla in comune. Muammar Gheddafi potrebbe figurare in un’italica foto di gruppo. Magari in un angolo, in un vasto panorama di volti, nazionali o non nazionali, più o meno ingialliti dalla storia più rapida del tempo, e con una patina più bizzarra che esotica. I confini della memoria patria sono assai più ampi di quelli geografici. E’ nato nella provincia di Misurata, quando la Libia era per l’Italia mussoliniana “la quarta sponda”, vale a dire parte del territorio regio. Lo sarebbe stata ancora per poco, perché quando Gheddafi venne al mondo, nel 1942, a una ventina di chilometri a Sud di Sirte, le forze corazzate dell’Afrikakorps del feldmaresciallo Erwin Rommel e le unità  mobili italiane si rincorrevano nel deserto con l’VIII armata britannica. E quel micidiale su e giù, per migliaia di chilometri disseminati di morti (dei quali leggi ancora i nomi negli struggenti cimiteri di guerra), si sarebbe concluso con la sconfitta italo-tedesca e con la fine del periodo coloniale. Mentre Gheddafi muoveva i primi passi, l’Italia perdeva il più povero pezzo del suo “impero”, strappato poco più di trent’anni prima, nel 1911, all’impero ottomano, senza sapere che quel “cassone di sabbia”, voluto dal liberale Giovanni Giolitti, progressista e spregiudicato, nascondeva un tesoro: il petrolio che avrebbe fatto dello scalzo beduino di Sirte uno dei più ricchi dittatori del pianeta.
IL DESIDERIO DI RIVALSA
Nell’accampamento dei beduini nomadi dove è cresciuto, Muammar ha subito le conseguenze del Secondo conflitto mondiale quando era finito da un pezzo. Aveva sei anni, giocava con due cugini, ed è esplosa una mina lasciata dagli italiani. I suoi compagni sono stati uccisi e a lui è rimasta una cicatrice sull’avambraccio destro. Era come un marchio che gli ha ricordato per tutta la vita i dominatori coloniali, per i quali nutriva sentimenti ambigui, contrastanti. Da un lato un rancore profondo, un desiderio di rivalsa, attraverso insulti e dispetti, dall’altro una voglia di mantenere rapporti distesi, talvolta amichevoli, spesso tesi a dimostrare il conquistato rango di un uomo potente. Il suo petrolio alimentava gran parte dell’Italia automobilistica e il suo gas faceva funzionare, sempre nella Penisola, una buona porzione dell’industria. E’ ancora cosi. Con grande soddisfazione Muammar comperò il dieci per cento delle azioni Fiat, quando Gianni Agnelli a corto di denaro aveva bisogno di aiuto. Il beduino ha teso la mano all’aristocratico industriale piemontese, “re d’Italia senza corona”. E la sua vanità  ebbe più di quel che sperasse quando Silvio Berlusconi, capo del governo di Roma, gli ha baciato la mano in pubblico, come un vassallo o un giullare.
L’INFANZIA DA PASTORE
Unico figlio maschio, faceva pascolare capre e cammelli, raccoglieva l’orzo e il grano, e aveva il dovere, l’onore, di imparare a leggere il Corano. I genitori non avevano conosciuto quel privilegio. Del Corano conoscevano a memoria molti versetti, ma non sapevano leggerlo. Se uno guarda oggi sui manifesti le ultime facce del raìs consumate, logorate, scavate, deformate da quarantun anni di potere, riesce difficilmente a immaginare l’infanzia pastorale di Muammar, tutta spesa ad accompagnare i pochi animali del deserto di proprietà  della famiglia e a imparare, all’ombra di un palmeto, a memoria, le parole di Allah raccolte da Maometto.
MINACCE E BUFFONERIE
Quel ragazzo è diventato con gli anni un personaggio impossibile e inevitabile, capace di imporsi nel mondo. C’è riuscito grazie alla ricchezza del petrolio, ma anche con le sue assurde trovate ideologiche e teologiche, con le sue buffonerie, con le sue minacce, con i suoi discorsi spesso incomprensibili, ed anche con le azioni terroristiche seguite da atti di contrizione. E’ una vita che suscita stupore; ma suscitano stupore anche i potenti della terra che l’hanno via via bombardato, condannato, messo al bando ma anche accolto con tutti gli onori, e riverito. E che spesso sono stati complici dei suoi delitti, e dei suoi fallimenti.
L’ULTIMA RESISTENZA
Il solo limite che ha saputo imporsi è stato quello di autonominarsi colonnello, dopo il colpo di Stato, ma di non darsi gradi più alti. Non ne aveva bisogno. Era la “guida” e gli bastava. Come rivoluzionario ha sposato tante cause preoccupandosi soprattutto che fossero estremiste. Si è proclamato “luce”, faro, del mondo arabo, e poi il padre, il “saggio” dell’Africa, senza mai diventare né l’uno né l’altro. Il finale è stato una tragica beffa, avvenuta nel furore e nel sangue: nel 1969 ha cacciato dal trono Idriss che da emiro della Cirenaica era diventato re della Libia; e nel 2011 lui, Gheddafi, è stato relegato dalla rivoluzione (favorita dalla vicina “primavera araba”, in Tunisia e in Egitto) nella sola Tripolitania. E’ finito ammazzato nella Sirte natale, dove era nato sotto una tenda. Va a suo onore essere morto insieme ai suoi. Non è fuggito con valige di petrodollari. L’orgoglio del beduino ha retto. Gli va riconosciuto. Non è scappato.
STUDIO, PREGHIERE E ORGOGLIO
L’orgoglio gli viene dalla famiglia, dalla tribù, a lungo impegnate durante il primo Novecento nella lotta contro gli occupanti italiani. La politica lo cattura molto presto. Il primo richiamo è quello nazionalista arabo di Gamal Abdel Nasser, che nel ‘52, con gli “ufficiali liberi” egiziani, ha cacciato re Faruk, e che nel ‘56 ha nazionalizzato il Canale di Suez, sfidando Francia e Inghilterra, i potenti azionisti del corso d’acqua artificiale che collega il Mediterraneo al Mar Rosso. Un’ammirazione senza limiti per il raìs del Cairo, in quegli anni campione del risveglio arabo, accompagna Gheddafi all’università , dove frequenta la facoltà  di legge, e poi all’accademia militare di Bengasi, dove crea un gruppo di “ufficiali liberi unionisti”, simili a quelli egiziani. Solo la via militare, pensa, può condurre a una rivoluzione capace di strappare la Libia dall’isolamento in cui la tengono la monarchia, e la forte presenza di forze armate britanniche e americane. Al ritorno dall’accademia militare inglese di Sandhurst, dove ha seguito un corso di sei mesi, impone ai suoi compagni, diventati cospiratori, una vita ascetica nell’attesa di passare all’azione: soltanto studio e preghiere, niente tabacco, alcol e sesso. La disfatta araba del 1967, durante la guerra dei sei giorni con Israele, affretta i piani che nel settembre ‘69 sfoceranno in un riuscito colpo di stato. Un colpo esemplare.
GLI ITALIANI ESPULSI
In quei mesi Muammar Gheddafi raggiunge una popolarità  internazionale. E’ un giovane ufficiale di 27 anni, fotogenico, asciutto, i lineamenti regolari, sobrio nel linguaggio, che ha abbattuto una monarchia debole e corrotta. E che ha il coraggio di espellere le basi militari americane e britanniche. Un anno dopo espellerà  gli italiani rimasti in Libia, ad eccezione di quelli che lavorano per la Fiat e per l’Eni. Le giornaliste straniere che lo intervistano ne sono affascinate. Ma presto affiora la megalomania, che diventerà  galoppante. Alla morte di Nasser, nel settembre ‘70, pensa di potergli succedere come campione del panarabismo. I soldi non gli mancano. Ma il tentativo di creare una federazione, sia pure “elastica”, con Egitto e Siria fallisce subito e Gheddafi perde la fiducia dei leader arabi, al punto che nel ‘73, per la guerra del Kippur, sempre contro Israele, non viene neppure consultato. Per reazione lui lancia allora una specie di rivoluzione culturale, invita a bruciare i libri stranieri, in particolare quelli dei “comunisti ebrei”. La sola lettura nobile è il Corano, che deve essere la guida dei patrioti, degli amici della rivoluzione.
IL LIBRO VERDE E LA JAMAHIRIYA
Di fronte all’opposizione che cresce e che contiene a stento, Gheddafi ricorre alle classi popolari, ai beduini, ai giovani, ai quali propone la sola vera democrazia “dopo quella ateniese”. Attua in quel periodo un’ampia distribuzione della ricchezza dovuta al petrolio. Al tempo stesso predica un potere popolare diretto. Cosi nasce il Libro Verde, nel ‘76, in cui si teorizza una terza via, una forma di governo inedita, articolata in congressi di base, ai quali appartengono automaticamente i cittadini, e in altrettanti comitati più ristretti, in sindacati, in associazioni, che formano una piramide al vertice della quale c’è il Congresso generale del popolo, istanza suprema della Jamahiriya, vale a dire lo Stato delle masse. E’ una forma di socialismo ispirato a suo avviso dall’Islam, che resta “il messaggio eterno”. Nel frattempo, sentendosi abbastanza robusto, Gheddafi avvia nel ‘77 una forte repressione, e uccide una trentina di oppositori. Le stragi saranno da allora sistematiche. Cosi gli arresti arbitrari, senza processo e le torture.
Deluso dagli arabi si rivolge all’Africa, e si impegna in una guerra nel Ciad, dove porta al potere Gukuni Oueddei, un suo protetto, che entra nella capitale, N’Djamena, su un carro armato libico. Il presidente Reagan lo considera a la mano di Mosca in Africa. E più crescono i sospetti americani e più Gheddafi si allinea sul blocco sovietico. In seguito a una serie di attentati, negli aeroporti di Vienna e di Roma, nell’aprile dell’86, l’aviazione americana bombarda Bab Al-Aziziya, il quartier generale dove si pensa a torto che si trovi Gheddafi. Gli attentati del dicembre ‘88 a Lockerbie contro un Boeing della PanAm e dell’anno successivo nel Niger contro un DC10 della francese UTA sono imputati ai servizi segreti libici. Ci vorranno dieci anni, e le sanzioni dell’Onu, per convincere Gheddafi a riconoscere la responsabilità . E a rimborsare col tempo i parenti delle vittime. Ma la svolta avviene quando George W. Bush invade l’Iraq di Saddam Hussein.
IL NEMICO BIN LADEN
Il raìs libico è preso dal panico, teme di subire la stessa sorte e comincia a collaborare con gli Stati Uniti alla caccia dei jiadisti di Al Qaeda. Gheddafi diventa il nemico di Bin Laden. Le sue carceri sono già  affollate da musulmani integralisti che si sono opposti al regime. La collaborazione con la Cia è dunque facile. Lo è anche con i servizi inglesi. E con quelli degli altri paesi occidentali. E’ tuttavia quando annuncia l’abbandono del programma nucleare che avviene il suo rientro in società . Nicolas Sarkozy lo accoglie a Parigi e gli consente di montare la sua tenda a due passi dal Palazzo dell’Eliseo. Silvio Berlusconi gli offre a Roma una platea di ragazze desiderose di conoscere le sue idee sulle donne. E’ il trionfo. L’Occidente assetato di petrolio lo festeggia, dimenticando i milleduecento prigionieri uccisi dagli sgherri di Gheddafi nel carcere di Tripoli. La restituzione dei loro corpi sarà  all’origine della manifestazione del 17 febbraio a Bengasi, quando incomincia l’insurrezione.


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