Controlli soft e corteo senza filtri così la polizia è finita in trappola

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ROMA – In un giorno che sembra non debba finire mai, il questore di Roma Francesco Tagliente e il suo dispositivo di ordine pubblico conoscono la loro Caporetto. Il Viminale si era preparato a difendere la quiete della «città  proibita», il quadrilatero dei Palazzi della politica, confinando il corteo in un gomito obbligato (piazza della Repubblica-Largo Corrado Ricci-San Giovanni) che, nelle intenzioni, doveva imbrigliarlo nel reticolo del quartiere Esquilino. Dove un’eventuale devastazione – questo il ragionamento – avrebbe avuto obiettivi meno sensibili. Qualche bancomat, qualche semaforo, qualche bottega, qualche cassonetto. Il questore, e con lui il prefetto, Giuseppe Pecoraro, avevano riproposto – senza per altro farne mistero alla vigilia – quel format di «dissuasione statica», che già  aveva dato pessima prova di sé il 14 dicembre dello scorso anno. Reparti (2000 uomini) e mezzi schierati a chiudere i varchi della “zona rossa”. Con tempi di reazione lunghi e farraginosi. Nessun “filtraggio” significativo e nessun intervento sul corteo e nel corteo. Da accompagnare come un fiume, dalla sorgente alla foce, sorvegliando che non tracimasse. Ebbene, non ha funzionato. Tanto che a sera, con i fumi e le rovine urbane della battaglia, restano solo le parole di solidarietà  del Capo dello Stato e del capo della Polizia, Antonio Manganelli, per chi, in divisa, ha combattuto per ore in strada e per quanti hanno avuto la peggio (15 gli agenti feriti).
I “neri” – se li vogliamo chiamare così – hanno avuto gioco facile. Conoscevano il «format». E hanno pianificato prima, e fatto poi, esattamente ciò che era in grado di mandarlo in corto-circuito. Hanno usato il corteo per proteggersi. Non ne hanno mai lasciato l’alveo, trasformandone il percorso in un sentiero di devastazione. Un sentiero che conoscevano e che avevano “armato” alla vigilia (come dimostra il ritrovamento in via Cavour, ieri sera, di una borsa con una decina di molotov e un cumulo di assi necessarie a costruire una rudimentale ariete). Consapevoli che non avrebbero incontrato resistenza. Sapevano che l’organizzazione della manifestazione non era in grado, per ragioni anche politiche, di garantire un servizio d’ordine. Che avrebbero dunque affondato come nel burro, da padroni violenti e minoritari di una piazza indignata ma pacifica. I “neri” sapevano che il Viminale li attendeva a una prova di forza “frontale”. A un tentativo di sfondamento verso la “città  proibita”. Hanno pianificato e fatto l’opposto. Hanno dato alle fiamme quella “libera”, portandosi dietro chi, in piazza san Giovanni, ha incrociato la loro strada e con loro nulla aveva a che fare. Quando il pomeriggio comincia, i ragazzi con le teste infilate nei caschi non arrivano a trecento. Tre ore dopo, superano i mille.
Eppure, per almeno due ore, tra le 14 e le 16, tra piazza della Repubblica (dove la manifestazione ha il suo concentramento) e Largo Corrado Ricci, dove via Cavour confluisce nei Fori Imperiali, il pomeriggio ha ancora una possibilità  di girare altrimenti. Ma in qualche modo è come se la rigidità  del piano di ordine pubblico non contempli fuori programma. Accade infatti che prima ancora che il corteo si muova nessuno noti – o dia il giusto peso – ad almeno un centinaio di “neri” che, arrivati dalla stazione Termini, portano caschi di ogni foggia legati alla cintola o chiusi al polso. Nessuno li filtra. O, meglio, il loro filtraggio è affidato a qualche pattuglia della polizia municipale. Il corteo li accoglie nella loro pancia con diffidenza, ma senza allarme.
Alle 16, quando la prima scia di devastazione ha acceso il corteo in via Cavour, il questore prende la decisione destinata a trasformare le ore che restano in una battaglia che lo lascia sconfitto. In Largo Corrado Ricci, c’è infatti la possibilità  di tagliare il corteo con i reparti schierati a protezione della «città  proibita». «Di andare dentro», come grida qualche funzionario alla ricetrasmittente per andarsi a prendere quella cinquantina di “neri” che, per altro, il corteo ha isolato e, in qualche caso, anche aggredito a bottigliate. Ma Tagliente ordina che i reparti non lascino i varchi. L’idea è che i “neri” possano ritenersi sazi del bottino sin lì raccolto. Ovvero, come in serata spiega una fonte qualificata della Questura, che «quella prima devastazione in via Cavour sia solo una provocazione per spingere a una prima carica e far sguarnire così di uomini e mezzi i varchi che bloccano l’accesso verso Piazza Venezia, palazzo Grazioli, il Corso e dunque il Parlamento». Di più. In largo Corrado Ricci, il questore è convinto che «non esistano i margini di sicurezza per intervenire». Al contrario, verranno ritenuti tali in via Labicana, prima. E in una piazza San Giovanni trasformata in tonnara, poi. Ma ormai è troppo tardi. Il pomeriggio e la sera sono ormai dei “neri”. Della loro furia. Dei loro numeri. Improvvisamente minacciosi quanto le loro mazze e molotov.


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