Così si era illuso di poter ancora vincere

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«Con i soldi e l’oro che si è portato dietro potrebbe costruire una città  o uno Stato senza che ce ne accorgessimo. Laggiù non vive nessuno». Ancora dieci giorni fa Musa Al Koni, tuareg e rappresentante del nuovo governo, era convinto che Muammar Gheddafi si nascondesse nel deserto sterminato a sud del Paese, i confini con l’Algeria e il Niger scritti sulla sabbia.
Invece il Colonnello era rintanato nella città  che si era già  costruito su misura della sua megalomania, trasformando un villaggio di pescatori nella seconda capitale. Perché dalle parti di Sirte era nato, perché lì aveva frequentato le elementari e perché la Libia non doveva avere una storia prima di lui. Il fastoso centro congressi Ouagadougou, adesso devastato dalle brigate rivoluzionarie, nel novembre 2010 aveva ospitato il vertice dell’Unione africana con l’Europa. Sulla spiaggia restano le tende che l’ex dittatore usava per ospitare i dignitari stranieri. A Tripoli ripetono che Sirte era la vera residenza di famiglia, che Gheddafi e i figli lasciavano malvolentieri le ville sulla costa. A Tripoli ripetevano che non poteva essersi rifugiato proprio lì, troppo prevedibile.
Così nei quasi due mesi di inseguimento le piste (sbagliate) hanno portato in direzioni diverse, lontano dalla strada costiera che unisce Sirte a Misurata. «Quando Muammar ha lasciato la capitale — commentava Fathi Sherif, uno dei cacciatori di taglie che braccava il qaid — quell’area era già  sotto il nostro controllo. La via di fuga passa verso sud». Verso il deserto e Sebha, l’oasi a ottocento chilometri da Tripoli. Verso Gadamesh e la frontiera con l’Algeria. «È protetto da una tribù nomade», spiegava Hisham Buhagiar, commerciante di tappeti che i doveri della rivoluzione hanno trasformato in segugio. «La carovana è composta da cento fedelissimi che gli stanno sempre stretti attorno e da un anello di difesa più esterno formato da 300-500 mercenari».
L’ultima volta che Muammar Gheddafi è apparso in pubblico sfidava a scacchi Kirsan Iliyumzhinov, presidente della federazione internazionale. Era il 13 giugno. Da allora il Colonnello ha continuato a giocare la sua partita contro i nervi dei libici con i proclami audio, che venivano rilanciati dagli altoparlanti anche per le strade di Sirte e Bani Walid, l’altra roccaforte dove in molti erano sicuri si fosse asserragliato.
In agosto, dopo essere stato cacciato da Tripoli, parla di «ritirata strategica» e giura di essere disposto al «martirio»: «Combatteremo in ogni valle, in ogni strada, in ogni oasi e in ogni città . Non ci arrenderemo, non siamo donne». Una settimana dopo annuncia: «Gheddafi non lascerà  la terra dei suoi antenati. Siamo pronti a dare battaglia». Insulta i ribelli: «Questi topi, questi germi, non sono libici: potete chiedere a chiunque». Sembra ancora convinto di poter vincere: «La gioventù resiste per eliminare i mercenari. Sconfiggeremo la Nato. Chi non combatte andrà  all’inferno».
Abdel Salem Jallud, amico d’infanzia del dittatore ed ex primo ministro, aveva previsto che Gheddafi sarebbe rimasto in Libia. «È difficile che possa arrendersi, ma non ha il coraggio di suicidarsi come Adolf Hitler», diceva a Lucia Annunziata in un’intervista trasmessa dalla Rai alla fine di agosto. «Avrebbe potuto salvarsi solo con un accordo internazionale per l’uscita di scena. Questa fase è passata».
I pettegoli del complotto hanno ipotizzato trattative segrete tra il Qatar e l’Algeria. L’emiro avrebbe voluto farsi consegnare Muammar per passarlo ad Abdel Hakim Belhaj, l’islamista diventato capo militare di Tripoli e pedina prediletta dell’intreccio strategico manovrato da Doha in Libia.
Solo che in Algeria, dove si sono rifugiati tre dei suoi figli e la seconda moglie Safiya, il Colonnello non ha mai provato ad andare. Ha preso la via opposta, a est, fino a Sirte, perché ha finito con il credere alla sua propaganda e ha pensato di poter ancora vincere.


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