Dal crac dell’Efim al voto «A2» La storia (fragile) del debito

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Era il 10 ottobre del 1986 — al governo era salito da poco Craxi per la seconda volta e il rapporto tra il debito pubblico e il Pil era poco sopra l’84% — quando l’agenzia fondata da John Moody aprì i suoi primi uffici a Milano iniziando a coprire la Repubblica italiana con una solida tripla A (Aaa) anche sui debiti in valuta estera. Un inizio che faceva ben sperare in un benessere diffuso e duraturo. È questa l’unica tripla A della storia del debito italiano (Standard & Poor’s ce l’ha concessa solo sul debito in valuta locale, la vecchia lira, una distinzione che con l’euro non conta più ma che una volta faceva la differenza in virtù della capacità  degli Stati di stampare moneta senza controlli e remore).

Quel moderno simbolo del potere finanziario restò attaccato per poco ai bilanci di via XX Settembre. Gli anni Novanta furono impietosi, fin dall’inizio. Tra il luglio del ’91 e il maggio ’93 venimmo declassati da Moody’s per ben quattro volte passando da Aaa ad A1. Nel marzo del ’93 anche S&P’s calò la sua scure (da AA+ ad AA). Declino ineluttabile, si potrebbe pensare: quando si parte dal punto più alto dello scivolo non si può che scendere. Ma ci mettemmo del nostro: fra tutte rimangono forti le immagini del crac della Efim. Al governo c’era Giuliano Amato, all’Iri Franco Nobili. Si trattò di gestire un buco da 8.500 miliardi di lire (dentro la società  c’erano la Breda e l’Agusta). La messa in liquidazione del più piccolo tra gli enti di gestione che aveva garanzie statali arrivò fino alla City londinese. Tra le banche creditrici che si trovarono in fila a tentare di capire cosa ne fosse stato dei propri soldi c’erano anche quelle estere. Il caso non aiutò certo l’immagine del Paese sulle piazze finanziarie. E le agenzie di rating tirarono le somme. Moody’s citò espressamente il caso in una delle decisioni di declassamento, quella da Aa1 ad Aa3: «La recente decisione di congelare il pagamento dei debiti dell’Efim potrebbe elevare i costi dei finanziamenti per tutte le società  emittenti del settore pubblico. Il fatto che il pagamento possa essere subordinato ad altri obiettivi dello Stato può provocare un aumento del premio di rischio». Insomma, dovendo cercare nella storia del debito italiano un momento in cui si insinuò il virus dell’insolvibilità  di fronte all’opinione pubblica mondiale probabilmente l’Efim sarebbe una candidatura credibile. Come se non bastasse il ’92 fu pure l’anno dell’attacco speculativo alla lira. Solo nel ’96 si risalì da A1 ad Aa3. A onor del vero c’è anche un ciclo storico più complesso, un flusso di deterioramento del credito internazionale di cui noi certo non siamo stati campioni. Secondo uno studio pubblicato dalla stessa Moody’s la quota di Paesi con una Aaa è passata dal 75% del 1983 al 15% del 2010. I Paesi investment-grade sono passati dal 100 al 61%. Gli speculative-grade dallo 0 al 39%. Andrebbe fatto un lavoro di scrematura con tutti i Paesi che man mano le agenzie hanno iniziato a seguire: sono proprio gli anni Ottanta, infatti, quelli del boom dei rating. I Paesi come il nostro si affacciano sempre di più all’esterno. Gli anni Novanta sono quelli delle privatizzazioni e il mercato chiede rassicurazioni.

Paradossalmente gli anni Duemila — così ricchi di critiche e con l’esplosione del debito fino agli attuali 1.900 miliardi, pari al 119% del Pil — sono stati un periodo di relativa stabilità . Addirittura nel maggio 2002 fummo promossi da Aa3 ad Aa2. Il credito degli sforzi fatti per entrare nell’euro, con la messa in sicurezza della gestione dell’economia senza il grimaldello delle svalutazioni, in qualche maniera ha funzionato. Ancora nel 2009, quando il terremoto del crac Lehman Brothers e dello scandalo dei titoli tossici aveva scosso latitudini e longitudini finanziarie, Moody’s, S&P’s e Fitch avevano deciso di non toccare il giudizio sull’Italia. Unica tra i «Piigs». Il 19 settembre era stata Standard & Poor’s a tagliare il rating da A+ ad A. Ieri Moody’s. Fine delle illusioni.


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