Fiori bianchi per l’abbraccio a Shalit “Che il mio ritorno serva alla pace”

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MITZPE ILLA (ALTA GALILEA) – Il lungo viaggio nel buio del soldato Shalit finisce qua, sul vialetto coperto di garofani bianchi che lo separa dalla sua casa, dal suo letto, dal primo pranzo a base di spaghetti e schnitzel che lo vede riunirsi con tutta la famiglia dopo cinque anni e quattro mesi di forzata separazione. Si può solo immaginare la tempesta di emozioni nel suo petto. Si legge perfettamente, invece, quella che s’abbatte su Noam, il padre, quando si avvicina alla folla dei giornalisti e dei sostenitori, e con voce incerta, ma senza mai tradire l’abituale compostezza, dice: «Oggi sentiamo che nostro figlio è nato per la seconda volta».
È inevitabile, dovendo riassumere la giornata forse più lunga delle oltre 1900 in cui s’è dipanato il caso Shalit, partire da qui, dal corteo che, al tramonto, arranca sulla strada in salita di Mitzpe Illa, fra ali di folla festante, bandiere, striscioni, cori di benvenuto, canti augurali, raffiche di petali e spruzzi di champagne che si abbattono sui vetri oscurati del grande camper bianco in cui ha trovato posto Gilad. Qualcuno è riuscito a infilare tra i cartelli ben auguranti anche un manifesto di Netanyahu («Un leader forte per un paese forte»), provocando qualche garbata ma ferma protesta.
Ma è dalla mattina, da quando sono state diffuse le immagini dell’intervista rilasciata alla televisione egiziana, subito dopo la liberazione, che gli israeliani hanno potuto misurare la distanza tra il simbolo che hanno per anni coltivato e il magro, fragile ragazzo in carne ed ossa appena uscito da un’avventura che avrebbe potuto travolgere chiunque. Tutti, nel pallore di Gilad, nelle occhiaie profonde, nell’apparente difficoltà  a respirare hanno colto i segni del lungo isolamento, della dura prigionia, ma nessuno ha mai dubitato per un attimo della sua perfetta lucidità , del suo auto controllo. Soprattutto quando, a domanda dell’intervistatrice egiziana, Shalit si è augurato la liberazione dei prigionieri palestinesi che restano rinchiusi nelle carceri israeliane, auspicando però che queste future liberazioni «avvengano nell’ambito di un processo di pace e che non vi siano più guerre o conflitti».
Ma non c’è bisogno di analizzare gli slogan che si sono levati dalla folla di Gaza, scesa in piazza per festeggiare il ritorno dei loro prigionieri, al grido «la gente vuole altri Shalit, la gente vuole altri Shalit», un’allusione a possibili futuri rapimenti con conseguenti scambi di prigionieri, per capire che non ci sono molte possibilità  che l’accordo raggiunto tra Israele e Hamas segni una svolta, apra muove prospettive di negoziato. Il governo Netanyahu sembra voler considerare l’intesa appena raggiunta, come un “una tantum” dettata da uno stato di necessità . Né il movimento islamico s’aspetta di più.


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