Giovani ultrà  del calcio e antagonisti dal Sud

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ROMA — Accanto al negozio Super Elite, che pagherà  a caro prezzo la propria ragione sociale, c’è un piccolo slargo.
Alle 14.35, dieci minuti dopo la partenza del corteo, finisce il tempo della finzione. I ragazzi sono giovani e saranno una cinquantina almeno. Depongono gli zaini e ne estraggono maschere antigas, felpe e passamontagna neri. Sfilano i caschi dalla cintura e se li mettono in testa. Fino a quel momento erano in abiti «civili», persi dietro al camion che apriva lo spezzone di San Precario, il secondo a partire. Uno di loro comincia a scuotere il cartello del divieto di sosta, lo strappa dall’asfalto e punta verso le vetrine. Le intenzioni sono chiare.

Una donna con la maglietta «partigiani per sempre» è l’unica a piantarsi davanti al gruppo. «Cosa state facendo, siete impazziti»? Le danno uno spintone, quasi la gettano a terra. La gente che assiste alla scena si ribella. «Fascisti» urlano contro i ragazzi in nero, «sarà  contento Berlusconi». Come se nulla fosse. C’è un lavoro da fare, e lo fanno. Le vetrine vanno in mille pezzi, con le commesse rannicchiate sotto al bancone che piangono di paura. Esproprio, saccheggio. Gli incappucciati escono dal negozio e lanciano alla folla il bottino. Pacchi di pasta, confezioni di filetto e salmone. Nessuno li raccoglie.

I buoni erano la stragrande maggioranza, erano tanti, e sono stati sconfitti dalla violenza di pochi. Tutti sapevano quel che stava per accadere, era chiaro fin dall’inizio. Alla partenza, in piazza della Repubblica si respirava poca allegria. Molte facce tese, sguardi preoccupati. Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, era attorniato dai suoi fedelissimi. «Noi ci siamo, ma garantiamo solo per noi» dicevano, mettendo le mani avanti. I centri sociali del Nord Est, Padova autonoma e dintorni, sceglievano una posizione defilata, e non per caso.

Indietro, molto indietro. Perché era davanti che sarebbero avvenute le cose brutte, nei primi cento metri, dove sfilava il carro di San Precario. C’erano state discussioni su quel pezzo di corteo dove alcuni non erano d’accordo con lo spirito della giornata. «Vogliamo conflitto, non protesta» urlavano appena arrivati in piazza. Ma il movimento degli Indignati è giovane. Non ha ancora una ossatura forte, un suo coordinamento. Tutti alla pari, e tutti dentro. Così la speranza si è mischiata a un senso di ineluttabilità , e dopo qualche centinaio di metri è apparso chiaro qual sarebbe stato lo stato d’animo prevalente.

La discesa lungo via Cavour non è stata altro che una rincorsa al peggio, dall’alimentari alla prima banca, fino ai due distributori di benzina alla fine della strada. Erano nella pancia della manifestazione, quasi impossibile espellerli. Ci ha provato in ogni modo Piero Bernocchi, lo storico leader dei Cobas, e gliene va reso merito. All’altezza del Colosseo, quando la strada si restringe, i due gruppi sono venuti a contatto. Schiaffi, qualche pugno, tanti insulti. Due mondi contigui eppure così diversi. I suoi militanti premevano per lo scontro fisico, Bernocchi ha scelto una soluzione intelligente. Si è fermato. Ha creato uno spazio, una lingua d’asfalto tra loro e il resto del corteo che seguiva.

In quel momento sospeso, quando nessuno si muoveva, è stato tutto chiaro. La rabbia della gente, più veloce della polizia nel capire che le cose si stavano mettendo male, quel gruppo che cresceva sempre più non aveva alcuna intenzione di lasciare il percorso autorizzato, si faceva scudo degli altri, dei veri Indignati, quelli con la faccia scoperta.

Sui muri restano le loro scritte, che sono quasi una autocertificazione. L’odio per i poliziotti, il disprezzo per i loro compagni di viaggio: «Piantiamo grane, non piantiamo tende». In un magma difficile da classificare c’erano gli ultrà  cittadini e quelli livornesi, i napoletani che avevano incendiato le notti di Terzigno ai tempi delle proteste contro la discarica, e poi i militanti dei centri sociali torinesi e romani visti tante volte nei boschi della Val di Susa, gli «agitati» di Milano e Bologna, area anarchica e giovane. C’erano quelli che si sapeva sarebbero arrivati, nessuna sorpresa. «Ci stanno isolando» diceva un incappucciato guardando la cartina di Roma. La scelta è stata di attaccarsi al troncone che precedeva, di proseguire con la testa del corteo, usando la gente pacifica come un altro travestimento, svestendosi dei panni neri per fingere la fine delle ostilità  e poi ricominciare subito dopo. Una portavoce degli incappucciati è salita sul camion di San Precario e ha preso il microfono. «E domani che nessuno si azzardi a dire che eravamo un gruppetto ai margini del corteo. Non c’è una regia politica di questa giornata e ci siamo anche noi, che rifiutiamo la logica di quattro capetti e quatto bandiere e non ci accontentiamo di arrivare in piazza san Giovanni».

Mancavano meno di due chilometri, ed è stato un calvario al quale gli altri hanno cercato invano di ribellarsi. Mai, a memoria d’uomo, si era visto un tentativo così netto di prendere le distanze, di ridurre il danno provocato dai «neri». Insulti, urla, fino allo scontro fisico, gente che prendeva gli incappucciati e tentava di consegnarli alle forze dell’ordine, fino a una vera e propria carica dei manifestanti contro i neri, che hanno risposto lanciando bombe carta e petardi per disperdere quelli che dovevano essere i loro compagni di corteo. In piedi su un cancello, un ragazzo terrorizzato piangeva e intanto li implorava di smettere. «State rovinando tutto». Un bullone lo ha centrato alla testa, abbattendolo come un birillo.

In piazza san Giovanni, sullo sfondo della nuvola di fumo solcata da pietre e bombe carta si vedevano i manifestanti addossati alla basilica, spaventati e impotenti. Ostaggi. Quando tutto è finito, molti di loro si sono fermati a rimettere a posto tombini divelti e cassonetti bruciati. Forse è l’immagine giusta per chiudere una giornata molto amara.


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