Il Belgio nazionalizza Dexia Un paracadute in extremis
BRUXELLES — Qualcuno le ha già storpiato il nome, con uno scipito giochino di parole: non più banca Dexia, con l’accento sulla «a», ma banca Déjà , «già ». E cioè: già salvata una volta dalla mano pubblica, già ricapitalizzata nel settembre 2008 con 6,4 miliardi di euro, già ammonita sui rischi di certe passeggiate nelle praterie dei titoli pubblici greci, italiani, spagnoli. E prima ancora, dei mutui subprime, delle paludi come la Lehman Brothers. Nessun «déjà » è bastato. Perché, giochini di parole a parte, ieri l’istituto franco-belga è tornato sul lettino di rianimazione dopo aver visto in una settimana le sue azioni dimagrire – o collassare – del 40%. E i governi francese, belga e lussemburghese, che se ne spartiscono la gestione, hanno deciso di salvarlo: con la spartizione e con la nazionalizzazione come terapia intensiva, almeno per la parte belga. Spesa prevista per le casse di Bruxelles circa 4 miliardi di euro, su un valore stimato per la Dexia che va dai 3 ai 7,5 miliardi: proprio per questo, l’agenzia di rating Moody’s ha già minacciato al Belgio un declassamento, ma ormai sarà difficile tornare indietro. «Nessun cliente della Dexia perderà un soldo», è stato garantito: i costi sociali di un tracollo sarebbero stati troppo alti, anche perché la Dexia ha radici e risorse in tutte le comunità locali del Belgio, fiamminghe, valloni o della minoranza tedesca. La Francia è rimasta un po’ più defilata nell’operazione, perché ancora più preoccupata di perdere il suo rating, una smagliante «tripla A» che pure comincia a lampeggiare sotto i moniti delle agenzie. Perciò ha proposto a Bruxelles una suddivisione del peso del salvataggio che a molti è parsa alquanto squilibrata: 60% o 65% della spesa per le garanzie statali sul gobbone belga, e il resto su quello di Parigi.
Tre anestesisti-rianimatori d’eccezione hanno firmato la prognosi, dopo un lungo e drammatico consulto domenicale: il primo ministro belga Yves Leterme, il suo collega francese Franà§ois Fillon, e il ministro delle finanze lussemburghese Luc Frieden. Ma a tarda sera, non tutto era chiarito: i vertici della banca erano ancora riuniti, mentre Bruxelles convocava un consiglio dei ministri straordinario. Oggi se ne saprà qualcosa di più. Ma il più è fatto.
Entro pochi mesi, si spera, il paziente Dexia si rimetterà in piedi: e dire che i Cds o «credit default swap», i titoli derivati che assicurano contro i rischi di un suo fallimento, erano arrivati nelle ultime settimane a valori stellari. Può darsi che la Dexia non sia la sola banca a percorrere ora questa strada, l’andata e ritorno dall’oltretomba: sia per gli errori compiuti nel passato, sia per lo sbocco quasi obbligato cui si è affacciata, sia per la sua abbagliante presenza fra gli istituti promossi negli ultimi «stress test» (e per il fatto incredibile che non sia comparsa invece fra gli istituti bocciati), può ben essere una banca-paradigma, l’apripista di altre banche d’Europa. Le stesse di cui Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno auspicato in queste ore la ricapitalizzazione.
Otto milioni di correntisti, 19,2 miliardi di capitale azionario al 31 dicembre 2010, 35.185 dipendenti per un terzo dislocati in Turchia, 732 milioni di profitto netto dichiarati nel 2010: nella classifica degli istituti europei, Dexia occupa da molti anni il ventesimo posto; ma quasi il 30% dei suoi investimenti finanziari, secondo voci insistenti e incontrollabili, è stato calamitato da «bond» greci, italiani, spagnoli. Perfino la sua controllata tedesca, la Dexia Komunlabank Deutschland Spa, sarebbe già in stato d’allerta: anche lei, con tutta la sua germanica parsimonia, avrebbe però concesso crediti per 5,4 miliardi a enti statali di Grecia, Portogallo, Spagna, Italia. E per due volte, secondo quanto anticipa il giornale tedesco «Spiegel», Berlino ha chiesto alla Dexia francese di garantire per la sua consorella sbilanciatasi fra le colonne del Partenone, o del Colosseo.
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