Il sangue del raìs diventa trofeo lo scempio dei sudditi in rivolta

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È accaduto di nuovo, lo abbiamo visto nel gorgo di violenza che le immagini del linciaggio di Gheddafi hanno registrato: il culto della personalità  degenera nell’odio per la persona, l’adorazione del vivo chiede la profanazione del morto.
Quella testa spelacchiata da vecchio ancora riccioluto, non più coperta dai truccatori e dai costumi di scena, che galleggia tra la folla che lo lincia, lo sballotta e lo ucciderà , impone la domanda che oggi conta: gli esecutori di Gheddafi saranno migliori di colui che hanno con tanta brutalità  torturato e finito?
In queste deposizioni senza pietà , che espongono il nemico come un trofeo di caccia, buttato sul cofano di una camionetta proprio come una capra abbattuta mentre bela ancora per chiedere pietà  e si dibatte, si strozza in gola il grido di liberazione e di gioia che dovrebbe sempre accogliere la caduta dei tiranni. Non si riesce a gioire per scene da bassa macelleria, anche quando il finale era già  stato scritto e meritato da quando lui aveva deciso di resistere per vanità  e cecità  nel ridotto della propria città  natale. Pur sapendo che la sua resistenza avrebbe immolato altre centinaia di libici.
È stato un abisso di orrore quello nel quale il raìs ridotto a un vecchio implorante e sanguinante è stato risucchiato, con una furia vendicativa che fa rabbrividire e fa ripensare alle voci sulle torture e le violenze dei ribelli contro i loro prigionieri lealisti, richiamo alle torture dei “liberatori” americani nel carcere di Abu Grahib e all’orrore dei cadaveri dei figli di Saddam esibiti alle telecamere. La sua inutile resistenza, la furia bestiale e vile della folla, da branco in rivolta contro il “lupo alfa” ormai spelacchiato e impotente, entrano, insieme con la profanazione dei corpi di Mussolini, della Petacci, degli altri gerarchi fascisti, nell’archivio delle dittature accecate e condannate all’oscenità  del finale.
Tutti gli uomini del destino sono sempre gli ultimi a capire che il destino gli ha voltato le spalle. Ogni vendetta sembra giustificata da chi li ha sofferti. Tutto già  visto, nella sequenza culminata nell’immagine forse più desolante, quella del ragazzino al quale è stata messa in mano una pistola d’oro come a Scaramanga, l’assassino professionale del film di 007. Per lui, per il suo linciaggio divenuto esecuzione voluta, a freddo, quando era ancora ferito, invocava pietà  e la testona pelata si dibatteva, più che di gloria transitoria si sarebbe dovuto usare l’anatema attribuito a Bruto sul cadavere di Giulio Cesare: «Sic semper tyrannis», questa è sempre la sorte dei tiranni.
Sono stati pochi, e molto fortunati, i despoti che sono riusciti a scampare al rito feroce dell’esposizione dei loro resti per il ludibrio e il consumo dei sudditi e del resto del mondo. Furono. nella storia recente, Stalin, morto a settantacinque anni nel proprio letto, di emorragia cerebrale; Mao Zedong, ucciso da un infarto a 83 anni; Francisco Franco, onorato e da molti rimpianto; Idi Amin, il sanguinario “Re di Scozia” che devastò l’Uganda, curato nell’agonia in un attrezzatissimo ospedale dell’Arabia Saudita o “Papa Doc” Duvalier, saggiamente rifugiato in Costa Azzurra per sfuggire ai machete degli Haitiani che proprio lui aveva mobilitato per mozzare la testa agli oppositori. Di Pol Pot, il signore dei “campi della morte” in Kampuchea, vedemmo il corpo senza vita, perché soltanto quella foto avrebbe potuto convincere i cambogiani che l’assassino di due milioni di innocenti non c’era più.
Gheddafi ha chiesto pietà , mormorando «non sparatemi, non sparatemi» e non ne ha avuta come non ne aveva avuta lui nel quasi mezzo secolo di regno. È tardi per invocare “in articulo mortis” quella misericordia umana che non si è concessa agli altri da vivi. Guardando l’ultima espressione congelata sul viso quando dovette sentire la canna della pistola d’oro premuta alla tempia, si è assaliti dalla nausea. Occorre fare uno sforzo per ricordare espressioni e volti che invece non vedremo mai, quelli dei passeggeri, delle madri, dei loro figli piccoli, che vissero i cinque minuti – un tempo interminabile – ancora allacciati ai sedili del mozzicone di Jumbo Jet che cadeva nella spirale del volo PanAm 103, nei giorni del Natale 1988. Quell’aereo civile che il morto di oggi ordinò di far esplodere a undici mila metri di quota, senza nessuna colpa.
Naturalmente è facile, per noi che non siamo stati rinchiusi nelle tane o abbandonati nel deserto a morire di sete, dove il Colonnello teneva in ostaggio i migranti per ricattare e mungere soldi alla tremante Italia, per chi non è rumeno, per chi non ebbe parenti, amici, gassati ad Auschwitz o fucilati sulle piazze dei paesi dell’Appennino, provare orrore e repulsione per questi riti barbarici esposti come un atto di nascita del futuro. Ma i coniugi Ceaucescu, passati dalla satrapia più sfacciata sopra il loro Paese al plotone di esecuzione e poi all’esposizione dei resti, il Saddam Hussein pescato dal buco come una talpa irsuta e poi impiccato nel buio di un processo grottesco, il Mussolini in Piazzale Loreto, sono la conferma necessaria, lugubre e morbosa, della fine. Lo aveva capito, nella sua diabolica e allucinata intelligenza, Adolf Hitler, negandosi ai vincitori russi e quindi garantendosi un prolungamento di esistenza immateriale, come un incubo. Lo sapevano anche gli Americani, quando fecero la scelta di gettare nell’Oceano Indiano il cadavere di Osama Bin Laden, per evitare il sussulto di pietà  che anche il suo corpo distrutto dai proiettili avrebbe sollevato.
Cercava di scappare, con una carovana di fuggiaschi e di gerarchi, verso una salvezza che per lui non poteva più esserci, sotto il mandato di cattura internazionale per crimini contro l’umanità . Mentre osserviamo, perché siamo costretti a farlo, perché sono immagini della nostra storia di cui Gheddafi è stato tanta parte, la foto di lui ripreso dal basso, la cicatrice del foro d’ingresso del proiettile della tempia, la gioia stranita del ragazzo al quale hanno messo in mano la pistola d’oro come fosse quella del colpo di grazia, ci chiediamo perché non avesse imboccato una delle vere e sicure vie di salvezza che tanti erano stati pronti a offrirgli, quando si era capito che la sua nazione si era stancata di lui. Troppo superbo, troppo arrogante, per accettare un processo, nel quale si sarebbero anche aperti troppi armadi di scheletri internazionali.
Non sarà  rimpianto, come non sono stati rimpianti i Saddam, i Pol Pot, gli Hitler. «Sic semper tyrannis». Ma nel momento della fine, mentre implorano i loro aguzzini, anche i tiranni tornano a essere soltanto uomini. E i loro esecutori, da vittime, tornano a essere carnefici.


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