IL TEMPO DEI MOVIMENTI

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Eppure ufficialmente la grande recessione è cominciata più di tre anni fa: la sua data d’inizio convenzionale è fissata al 15 settembre 2008 quando fece fallimento la banca newyorkese Lehman Brothers. Ma è più vecchia almeno di un anno: la crisi dei mutui subcrime era scoppiata già  nell’estate 2007 portando a nazionalizzare un paio di banche inglesi (Lloyds e Royal Bank of Scotland). Per quattro anni i popoli d’Europa e d’America hanno quindi subito gli effetti della recessione, la contrazione del potere d’acquisto, la precarizzazione della vita.
Eppure la protesta è rimasta flebile, sporadica, quando non è stata semplicemente ignorata come in Grecia l’anno scorso. Più il tempo passava e più era stupefacente (e preoccupante) quest’atonia silenziosa, questo fatalismo sottomesso. Come se si fosse ammutolita la capacità  dei popoli di esprimere lo scontento, la rabbia. Eravamo arrivati a invidiare i giovani arabi, a sognare una piazza Tahir a Roma, Madrid o Parigi.
Ma dimenticavamo che gli effetti sociali e politici delle crisi non sono mai immediati. I popoli non sono palle di biliardo che rimbalzano contro le sponde dei bilanci statali sotto i colpi delle recessioni. Scordavamo quel che era successo nel più rivangato precedente della nostra crisi, la Grande Depressione ufficialmente scoppiata col crollo di Wall street il 29 ottobre 1929.
Franklin Delano Roosevelt fu eletto ben tre anni dopo quel crollo, ma nel primo anno di potere (1933) adottò una politica fiscale assai ortodossa e si dedicò soprattutto a salvare le banche (come un altro presidente dei nostri tempi). La situazione sociale divenne esplosiva solo nel 1934, ben cinque anni dopo l’inizio della crisi. Fu solo allora che scoppiarono i grandi scioperi degli scaricatori di porto sulla costa est, dei camionisti a Minneapolis, dei 325.000 tessili nel sud. E fu solo sulla spinta di queste lotte che nel 1935 fu varata la Social Security e fu approvato il Warner Act che rendeva più facile per i lavoratori sindacalizzarsi.
Dimentichiamo che anche in Francia cominciarono solo nel 1934 i grandi scioperi che avrebbero portato nel 1936 alla vittoria del Fronte popolare, con le 40 ore e le ferie pagate. E persino la mitica socialdemocrazia svedese salì al potere nel 1932, tre anni dopo lo scoppio della crisi, e dopo lotte durissime.
Questi precedenti ci insegnano che perché i popoli si facciano sentire e protestino è necessario un tempo di reazione che si misura non in mesi ma in anni. Non sappiamo se nella lunga crisi attuale questo tempo è già  giunto. Certo, le avvisaglie si moltiplicano. Non ci sono state solo le grandi proteste greche. Le città  inglesi sono state infiammate dalle rivolte spontanee. I giovani di Spagna occupano da mesi le strade. Persino negli Stati uniti d’America dove finora si erano levati solo i queruli strepitii del Tea Party, si levano oggi voci alternative. Ed è straordinario quanto timore suscitino nei potentissimi banchieri di Wall Street queste poche migliaia di inermi manifestanti. A dimostrazione che l’unico modo per far venire i potenti a più miti consigli è mostrargli i limiti della loro potenza.
E ora tocca all’Italia. Già  l’altro ieri c’era stata la prova generale della tendopoli davanti a Bankitalia. Ma la vera speranza è che da oggi non ci sia più bisogno di nessun sostituismo, perché là  fuori la gente reale, i popoli si muovono davvero e fanno sentire la lor voce profonda.


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