Il terremoto devasta la Turchia «Oltre un migliaio di vittime»

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La notte non ha concesso un minuto di tregua ai 380 mila abitanti di Van. La terra non ha smesso di tremare nella provincia orientale della Turchia, quasi al confine con l’Iran, dove alle 13 e 41 locali di ieri (le 12 e 41 in Italia) una prima scossa di 6,6 gradi della scala Richter ha segnato per la popolazione l’inizio di una tragedia già  nota.
La spallata più forte, oltre i 7,2 gradi di magnitudo, ha dato il colpo di grazia a edifici già  traballanti, ha tagliato la via di fuga agli inquilini di un palazzo di sette piani, ha abbattuto 80 case soltanto nella città  di Ercis, a pochi chilometri dal capoluogo, ha fatto perdere il conto delle vittime. La prima accertata è una bimba di 8 anni che abitava nella provincia di Bitlis.
Cinquanta, cento, cinquecento, mille, diecimila: dal conteggio dei corpi che arrivano effettivamente negli ospedali si passa presto alle proiezioni su quello che sarà  il bilancio finale, mentre i superstiti, arrampicati su montagne di macerie, scavano a mani nude tra i detriti nella speranza di disseppellire i familiari, gli amici, i vicini che là  sotto stanno consumando gli ultimi residui di ossigeno e di speranza. Chi ha più di 35 anni, a Van, ricorda i 4.000 morti del 1976, sa che un terremoto così forte non concede sconti a chi non ha fatto tesoro delle lezioni passate e non ha imparato a costruire e ricostruire secondo le regole antisismiche. La profonda provincia turca non è il Giappone.
La povertà  dei materiali edilizi presenta la fattura. Crollano case, dormitori, collegi, stazioni di servizio, le strade si riempiono di gente terrorizzata, di auto intrappolate in ingorghi incontrollabili. I sindaci di Van, Bekir Kaya, e di Ercis, Zulfikar Arapoglu, non possono fornire dati precisi, ma soltanto chiedere aiuto: «Servono medici, scavatrici, soccorritori» implorano ai microfoni di radio e televisioni. C’è da pensare a chi ancora può essere salvato, ai miracoli ancora possibili, prima di cominciare a piangere i morti. L’Osservatorio sismologico turco «Kandilli» di Istanbul individua l’epicentro del terremoto a cinque chilometri di profondità , sotto il villaggio di Tabanli. Le fonti internazionali, invece, parlano di 7 chilometri. Le ambasciate e i consolati stranieri iniziano l’ansioso appello degli stranieri che vivono o viaggiano nella regione.
A Van abita una famiglia italiana, tre persone, padre, madre e una figlia. Sono molto noti, vivono come missionari laici e con il loro lavoro di artigiani aiutano la comunità . «Sono salvi — parte il tam tam attraverso i frati armeni, il console italiano Igor Di Bernardini, a Smirne, l’ambasciatore, Gianpaolo Scarante, a Istanbul —. Stanno bene, ma hanno dovuto abbandonare la loro casa danneggiata».
Il telefonino della figlia, l’unico ancora funzionante, si scarica presto. Giusto il tempo di comunicare che dormiranno in auto, nonostante le temperature notturne già  basse. Non si fidano di avere un tetto sulla testa dopo aver visto crollare un palazzo davanti ai loro occhi, mentre in macchina cercavano di uscire dalla città  e dalla trappola più stretta formata dalle macerie e dai muri che si afflosciavano dietro di loro. Sono arrivati a Edrenit 18 chilometri più in là . Si sono accampati nella hall di un albergo, hanno atteso soccorsi che per molte ore non si sono visti.
Israele è stato uno dei primi Paesi a offrire aiuto alla Turchia, mettendosi alle spalle gli incidenti diplomatici seguiti all’assalto della marina israeliana alla flottiglia di attivisti filo palestinesi che l’anno scorso tentavano di rompere il blocco di Gaza. Il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, ieri sera ha però detto ai microfoni della tv Channel 2 News: «Ho l’impressione che i turchi non vogliano il nostro aiuto. Fino a ora la loro risposta è stata negativa ma, se ci ripensassero, siamo pronti a fare la nostra parte».


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