La lunga mano del Pakistan dietro al ricatto del terrore

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La loro strategia è semplice: tenere il più possibile, visto che alla fine la Nato se ne dovrà  andare. La strage di Kabul sintetizza i dieci anni della guerra più lunga. Un’autobomba impressionante — quasi 700 chili di esplosivo —, un veicolo blindato che nulla può contro il kamikaze, un attacco nella capitale, perdite pesanti. L’ultimo rapporto uscito dal Pentagono, pur sottolineando i successi registrati in alcuni parti dell’Afghanistan, avverte che la situazione rimane instabile anche per colpa delle trame pachistane e della debolezza del governo Karzai. Le forze locali appaiono incapaci di affrontare la sfida: su 218 battaglioni di polizia neppure uno può agire da solo; su 204 battaglioni dell’esercito afghano solo uno è in grado di operare in modo autonomo. Gli sforzi degli alleati — Italia compresa — nell’addestramento dei reparti afghani non ha ancora colmato il divario. È ovvio che non dipende dagli istruttori ma dalla volontà  dei locali. Lo rivela un dato. Soltanto a giugno hanno disertato 5 mila soldati afghani. Fughe che accompagnano un altro fenomeno in crescita, quello dei militari che sparano sui soldati Nato: ieri sono stati uccisi tre australiani. Tutti si chiedono — conoscendo già  la risposta — cosa accadrà  man mano che le province passeranno sotto il controllo delle autorità  afghane.
Il quadro precario favorisce i talebani e i gruppi affini. Dimostrando grande pragmatismo, gli insorti si sono adeguati al momento. Sul piano strettamente militare hanno continuato a evitare lo scontro diretto. Non potrebbero sostenerlo, vista la disparità  di volume di fuoco. E allora si sono affidati alla loro arma migliore. Gli esplosivi. Il 90 per cento delle perdite Nato (e dei civili) è da attribuire agli ordigni improvvisati, in gergo Ied. Ancora un numero: da giugno ad agosto sono state scoperte o individuate 5.088 bombe. L’80 per cento realizzate con il fertilizzante contrabbandato dal vicino Pakistan. Basta allungare a un camionista l’equivalente di 20 dollari e lui ne porta sacchi a volontà . Per rispondere alla minaccia, la Nato ha migliorato tecniche e mezzi. I talebani hanno allora aumentato le quantità  sventrando i corazzati o spazzando via le pattuglie appiedate.
Insieme agli attacchi dinamitardi, gli insorti hanno sferrato colpi a sorpresa nei centri abitati. Una specialità  del network Haqqani. Il gruppo, che ha i suoi rifugi in Pakistan e gode di protezioni all’interno dell’Isi, il servizio segreto pachistano, è una lancia letale formata da militanti tradizionali, qaedisti e volontari stranieri. I mujahedin, con le missioni sacrificali nel centro di Kabul, hanno dimostrato di poter agire in aree ben protette. Obiettivi che si possono conseguire solo se gli uomini sono bene addestrati e si dispone di un apparato di intelligence efficace. Interessante anche il modus operandi nelle azioni suicide. In diverse occasioni l’esplosivo era nascosto nel turbante oppure sotto il burqa. Travestimenti usati per compiere alcuni omicidi mirati, come quello che è costato la vita all’ex presidente Rabbani, che indeboliscono le fragili istituzioni afghane.
La pressione terroristica è legata all’obiettivo di arrivare a un negoziato che riconosca ai ribelli un ruolo preminente. La Nato, due anni fa, aveva suggerito di parlare con «i piccoli talebani» o «talebani buoni». Con il tempo, l’alleanza ha allargato lo scenario ai «cattivi», quelli che siedono nel consiglio di Quetta insieme all’imprendibile mullah Omar. E ci sono stati colloqui in territorio neutrale, dal Golfo Persico alla Germania. Un filo che ha poi portato a contatti persino con gli Haqqani, dunque con il nemico peggiore. Situazioni ambigue, dove è facile giocare su più tavoli. L’assassinio di Rabbani, negoziatore principe, ne è la prova.
La resistenza dei mullah, però, non sarebbe possibile senza la sponda del Pakistan, vero arbitro della crisi. Nelle 158 pagine del rapporto del Pentagono si insiste come i santuari nell’area tribale siano fondamentali per la guerriglia: rappresentano — si dice — la minaccia più grave alla missione Isaf. Dai loro nascondigli i leader impartiscono ordini ai gruppi attivi in Afghanistan e, nel contempo, organizzano spedizioni di gruppi di fuoco che violano il confine. C’è in sostanza una direzione strategica — ospitata nelle città  pachistane — che lavora in tandem con strutture ombra in ogni provincia dell’Afghanistan. Sotto di loro degli operativi minori che gestiscono gli uomini a livello tattico. Parliamo di una leadership «leggera» e decentralizzata che però funziona.
Una realtà  contro la quale Washington ha impiegato, in modo massiccio, i droni e gli avvertimenti verbali. Il Pakistan ha risposto facendo muro e trovando comprensione persino nel presidente afghano Karzai. L’uomo che sta in piedi grazie agli alleati si è forse convinto — anche lui — che le chiavi del conflitto sono custodite a Islamabad. E qualsiasi soluzione dovrà  tenere conto degli interessi pachistani.


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