La signora in verde

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 Quando il Comitato norvegese per il Nobel ha deciso di dare il massimo riconoscimento di artefice della pace alla signora Wangari Maathai, nell’ottobre del 2004, molti devono essersi chiesti: «che c’entrano gli alberi con la pace?». Maathai infatti era nota nell’ambientalismo internazionale per aver fondato il Green Belt Movement («movimento della cintura verde»), nato in Kenya nel 1977 con un’idea semplice: «riforestare per vivere», piantare alberi sui terreni degradati che spesso circondano le bidonvilles urbane o i villaggi impoveriti, e trasformarli in «cinture verdi» per la sopravvivenza.

Wangari Maathai si è spenta il 25 settembre a Nairobi, la sua città , stroncata da un tumore. Aveva 71 anni. Il suo nome resta legato a legato a quel movimento, Green Belt, che ha avuto un ruolo di rottura e di critica che va ben oltre il Kenya e l’Africa – come ben ricordano i partecipanti ai forum «alternativi» degli anni ’80 e ’90, quando cominciò a emergere un movimento globale per la giustizia sociale e Maathai ne è diventata una protagonista. Tanto che già  vent’anni prima del Nobel ufficiale, nel 1984 Wangari Maathai aveva avuto il Right Livelihood Award, considerato una sorta di «nobel alternativo» attribuitole per «aver trasformato il dibattito ecologico in Kenya in un’azione di massa per la riforestazione».
Vale a pena di ricordare la storia di questa signora, e del movimento a cui il suo nome è legato. Prima donna in Kenya a ottenere un dottorato (in zoologia) e poi un incarico universitario, Wangari Maathai è arrivata all’impegno ambientalista e sociale negli anni ’70. Lei stessa ci aveva raccontato che nel `75, quando le Nazioni unite preparavano la prima Conferenza mondiale sulle donne, le fu chiesto di intervenire sul tema «le donne e l’ambiente». Lei parlò delle priorità  delle donne in paesi rurali come il Kenya: legna da ardere, acqua, terra da coltivare, cibo («con il passaggio dall’agricoltura per l’autoconsumo a quella per il mercato le donne sono state emarginate perché i soldi andavano in tasca agli uomini», spiegava). Due anni dopo, nel 1977, ha fondato il Green Belt Movement: «Abbiamo cominciato a piantare alberi lavorando insieme alle donne delle comunità , e abbiamo cominciato a vedere i nessi tra la scomparsa delle foreste, la penuria d’acqua, il degrado dei suoli», ci ha spiegato molto più tardi, nel 2005, in occasione di una visita alla Fao a Roma.
Piantare alberi, spiegava, ha molte implicazioni: combattere la deforestazione galoppante (il Kenya ha perso negli ultimi 150 anni tre quarti della sua copertura forestale, sotto l’azione prima dei colonialisti britannici poi dell’élite locale di proprietari terrieri: e la deforestazione accelera), e contrastare l’effetto a cascata di l’impoverimento dei villaggi e delle periferie urbane, o la lunga marcia quotidiana delle donne per procurarsi legna da ardere (oltre il 90% delle comunità  rurali usa la legna per cucinare). Piantare alberi è inoltre un modo per mobilitare le comunità , e per proteggere la varietà  biologica locale. L’obiettivo del risanamento ambientale è sempre andato di pari passo con quello della promozione delle donne, la loro emancipazione, la partecipazione alla vita sociale, l’istruzione: ciò che più tardi nel linguaggio delle Nazioni unite è stato definito empowerment delle donne e delle comunità  locali impoverite. E tutto questo, a partire dagli alberi…
Negli anni ’80 movimenti sociali come il Green Belt del Kenya (o il movimento Chipko per la difesa degli alberi sulle pendici dell’Himalaya, in India: anche là  le donne erano protagoniste) furono guardati come esempi di iniziative dal basso, rivolte alle popolazioni, che capovolgevano la concezione dominante dello sviluppo. Il dibattito attraversava ormai gli organismi internazionali della «cooperazione allo sviluppo», le agenzie delle Nazioni unite, gruppi di donne occidentali e del terzo mondo. Proprio a Nairobi, nel 1985, alla seconda conferenza dell’Onu sulle Donne, donne come Wangari Maathai e altre, venute dal resto dell’Africa, l’India, l’America Latina si sono imposte a un pubblico mondiale. Maathai è divenuta una figura familiare, carismatica e trascinante nei forum alternativi che negli anni ’80 e ’90 hanno visto nascere reti internazionali per la giustizia sociale, o quelli che accompagnarono il Vertice della Terra di Rio de Janeiro nel ’92, e le successive grandi conferenze dell’Onu sullo sviluppo.
Il Green Belt ha «esportato» l’idea di un legame inevitabile tra la protezione ambientale e il coinvolgimento attivo delle comunità  e delle donne in particolare: le strategie ambientali, sosteneva Maathai, vanno accompagnate da progetti che coinvolgano le donne in tutte le fasi dello sviluppo, per favorire il loro accesso alle risorse naturali, l’istruzione, la formazione professionale, alla pianificazione familiare. Quanto a lei, Maathai, divenuta un’autorità  internazionale è però sempre rimasta ancorata al lavoro “sul campo”, con tutte le sue implicazioni politiche: «Le donne piantano alberi nelle loro fattorie, e riescono a farne un piccolo vivaio, da cui trarranno un piccolo reddito. E’ un piccolo motivo di emancipazione, sarà  riconosciuto loro un ruolo economico attivo, quindi anche il loro status nella comunità  migliora. Ma ci occupiamo anche di educazione civica, ovvero di divulgare i diritti fondamentali: la nostra è anche una battaglia di democrazia e contro la corruzione», ci aveva detto una volta al telefono da casa sua, a Nairobi: era il 1999, lei era barricata in casa sotto la minaccia di bande di picchiatori – da qualche settimana gli attivisti del Green Belt sostenevano un braccio di ferro con i palazzinari che volevano radere al suolo una foresta alle porte della capitale kenyota per farne una enclave di residenze signorili, e lei aveva accusato il governo di essere il mandante. I palazzinari, spiegava allora, «sono ministri, figli del presidente, o persone altolocate a lui vicine».
Piantare alberi dunque era diventato anche uno strumento di lotta politica in un regime autoritario: il presidente era allora Daniel arap Moi e «non c’era spazio per criticare, protestare, denunciare. Così siamo diventati anche un movimento per la democrazia», ci spiegava Maathai in quell’occasione. Solo alla fine del 2002 le elezioni generali in Kenya hanno decretato l’uscita di scena di arap Moi (era stato al potere per 39 anni) e la vittoria di una “coalizione arcobaleno” di cui faceva parte anche il piccolo Partito verde guidato da Maathai, che in breve si è ritrovata viceministro per l’ambiente. Un vero terremoto politico (anche se, per quello che la riguarda personalmente, ha preso presto le distanze dall’esperienza di governo).
Quando l’abbiamo incontrata alla Fao, nel 2005, ormai Nobel per la pace, Maathai era «ambasciatrice» di pace dei paesi del bacino del Congo, regione ormai da vent’anni teatro di diverse guerre. Parlava ancora di alberi, di foreste, e di debito: «La verità  è che molte delle guerre oggi in corso nel mondo sono giocate proprio sulle risorse naturali: chi le controlla, chi vi ha accesso, chi le sfrutta. Dove le élites controllano le risorse e le grandi masse ne sono escluse, presto o tardi vedrete scoppiare conflitti e guerre. Una cosa è certa, i dittatori non redistribuiscono le risorse», ci aveva detto. E’ ben questo che c’entrano gli alberi con la pace. Così del resto lo aveva inteso il Comitato norvegese per il Nobel: «La pace sulla terra dipende dalla nostra capacità  di proteggere l’ambiente in cui viviamo», diceva la motivazione del premio alla signora che pianta gli alberi.


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