La teoria del miracolo all’ultimo fallimento

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L’obiettivo di Regling è spiegare ai cinesi e, dopo di loro, ai giapponesi, perché vale la pena di mettere i loro soldi nel fondo che potrebbe essere chiamato a salvare l’Italia e la moneta unica. Silvio Berlusconi non gli ha certo facilitato il compito.
Ma le uscite sconsiderate del presidente del Consiglio italiano, e le immediate ritrattazioni che sono anche peggio, aiutano a capire perché l’Europa non prenda sul serio i tardivi programmi di risanamento di questo governo e si prepari a combattere sul debito pubblico italiano una battaglia decisiva, chiamando a raccolta tutti i possibili alleati.
In due anni di crisi dei debiti, cinque Paesi della moneta unica sono finiti sotto attacco: Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia. La Grecia, in cui il precedente governo aveva truccato i conti, si avvia verso un default concordato. L’Irlanda e il Portogallo hanno ricevuto prestiti dal Fondo salva Stati, cambiato il governo, varato riforme profonde e dolorose, imboccato la via della ripresa e oggi sono considerati in corso di guarigione. La Spagna, ancora prima di ricevere aiuti, ha convocato le elezioni, corretto i conti pubblici, iscritto il pareggio di bilancio nella Costituzione, avviato una difficile ripresa economica. Ed oggi, come dicono i leader europei, «non è più in prima linea». L’Italia, che ha un debito pubblico pari a una volta e mezzo quello di tutti gli altri Paesi messi insieme, e che quindi fin dall’inizio della crisi era nel mirino dei mercati, non ha fatto nulla fino a questa estate. Il nostro premier ci spiegava che eravamo messi meglio della Francia e della Germania, mentre Parigi e Berlino ascoltavano attonite queste fanfaronate. Poi ha votato una manovra riscritta almeno cinque volte e i cui effetti sono tutti da verificare. Infine, costretto dai leader europei che ci hanno puntato una pistola alla tempia, ha mandato una letterina di buone intenzioni che nessuno ha preso sul serio, come dimostra il fatto che il premio di rischio sui Btp italiani è andato alle stelle. Il tutto, paradossalmente, continuando a «rassicurare» gli altri leader europei sul fatto di essere saldo in sella e che resterà  alla guida del Paese fino al 2013 e quindi gettando benzina sul fuoco della sfiducia.
A questo punto la strategia europea sul problema italiano ha dovuto imboccare un doppio binario, un po’ come era accaduto con la Grecia e come avviene, in genere, per i casi disperati. Da una parte Bruxelles e Francoforte ci pongono sotto tutela: chiedono dettagli e scadenze precise, mettono in piedi task force destinate a tallonare le autorità  italiane, ci invitano quotidianamente a rispettare gli impegni e non risparmiano più i richiami al minimo sgarro.
Dall’altra parte, però, visti gli interlocutori che ha di fronte nel governo italiano, l’Europa si prepara anche al peggio. La missione, non facile, è di salvare l’Italia nonostante se stessa e il suo governo. Lo scenario, fin troppo plausibile, è quello di un Paese in balia di una maggioranza litigiosa e indecisa a tutto, che non riuscirà  a raggiungere gli obiettivi di bilancio che si era prefissa, non varerà  riforme effettivamente in grado di stimolare la crescita, e si avviterà  in una stagnazione economica in cui il peso del debito si farà  sempre più pesante e gli interessi da pagare sempre più insostenibili.
È per questo che il signor Regling è andato a Pechino. Per questo sono in corso negoziati febbrili con il Fmi a Washington e con la Bce a Francoforte. Per questo la Merkel e Obama si consultano quotidianamente in vista del vertice G20 di Cannes. La crisi della Grecia, che ha 350 miliardi di debito pubblico, finora è costata 200 miliardi di prestiti, 100 miliardi di ricapitalizzazione delle banche, e un taglio del 50 per cento del valore del suo debito. Quanto potrebbe costare all’Europa una crisi dell’Italia, il cui debito è di 1900 miliardi? La risposta è semplice: più di quanto gli europei da soli si possano permettere. Per questo, in preparazione dello scenario peggiore, occorre mobilitare la Cina e le altre potenze industriali emergenti; ricapitalizzare il Fmi, coinvolgere il G20 nella creazione di una gigantesca rete di salvataggio. Oppure si potrebbe sperare in un sussulto di serietà  da parte del governo italiano, che forse è ancora in tempo per salvare il Paese e l’Europa. Ma i Grandi del mondo, si sa, non credono ai miracoli. Tanto meno a quelli di Berlusconi.


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