L’Eta pacifica, il giorno dopo

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 BARCELLONA.Con una dichiarazione storica con la quale afferma il suo impegno «chiaro, fermo e definitivo», ETA (Euskadi Ta Askatasuna, l’organizzazione socialista rivoluzionaria basca per la liberazione nazionale) ha deciso di porre fine alla sua attività  armata. Così come era stato chiesto da figure internazionali come il presidente del Sinn Fein Gerry Adams, il consigliere dell’ex premier britannico Tony Blair, Jonathan Powell, dal mediatore sudafricano Brian Currin, ancora lunedì scorso in una conferenza di pace a Donostia (San Sebastian), ETA ha seguito con coerenza il percorso avviato ormai nel 2009.

La dichiarazione di ETA infatti è l’ultimo passo di un cammino che ha visto la sinistra abertzale (indipendentista) impegnata in prima linea nella costruzione di un processo di pace che tenesse conto di tutte le anime del conflitto (vittime comprese). Un percorso in salita, perché lo stato spagnolo (e quello francese) non ha fatto nessun passo in direzione di quella «creazione di un ambiente favorevole al dialogo», invocato tra gli altri da Gerry Adams, con cognizione di causa. Quel dialogo, tra pari e senza precondizioni, che ha dato i suoi frutti in Irlanda del Nord.
Il governo Zapatero ha risposto picche a qualunque azione concreta verso la pace fatta dalla sinistra basca. Picche significa che Zapatero ha risposto con operazioni di polizia, mandando in galera vertici e militanti (680 sono i detenuti politici) di quella sinistra attiva per una soluzione pacifica al conflitto. La magistratura ha rincarato la dose illegalizzando i partiti che proponevano percorsi per eliminare le armi dall’arena politica basca. Ma la sinistra abertzale è andata avanti con tenacia per la sua strada. In questo trovando ricettiva ETA, che ha compiuto una serie di passi unilaterali importanti e non scontati, dalla tregua unilaterale, alla cancellazione della ‘tassa rivoluzionaria’ imposta agli imprenditori. Fino alla dichiarazione di giovedì. La sinistra abertzale ha avuto il sostegno in questi due anni del Sinn Fein. E poi ha potuto contare sull’impegno di Brian Currin, che già  si era occupato di processi di pace proprio in Irlanda del nord. Tessendo una tela internazionale nel silenzio pressoché totale dei media e della sinistra europea (coda di paglia? la sinistra basca non ha nemmeno il permesso di entrare al parlamento europeo) Currin è riuscito a portare in Euskal Herria politici di grande calibro che hanno favorito la creazione delle condizioni necessarie a far decollare il dialogo.
Adesso, va da sé. la palla è tutta in campo spagnolo e francese. Nella speranza che i due governi sappiano e vogliano rispondere all’altezza. È già  cominciato il balletto – visto anche in Irlanda del nord al tempo dell’accordo del venerdì santo – che vuole trovare il pelo nell’uovo nella dichiarazione di ETA («come si può credere all’organizzazione se le armi sono ancora in circolazione?» il refrain più comune) Ma sono tutte scuse. Lo sa Madrid e lo sa Parigi. Il premier spagnolo Zapatero, a un mese dalle elezioni che con ogni probabilità  lo vedranno tornare a casa, ha con solennità  dichiarato che d’ora in avanti «avremo una democrazia senza terrorismo, ma non senza memoria». Frase azzardata in un paese europeo con duemila fosse comuni di desaparecidos repubblicani riconosciute istituzionalmente solo nel 2004.
Zapatero ha aggiunto che sarà  «compito del governo che verrà , dopo il 20 novembre, gestire la fine di ETA». Nessun accenno al dialogo. Il governo insiste nel dire che «la fine di ETA è arrivata grazie al lavoro congiunto dei partiti spagnoli e baschi, della società  e della polizia». In altre parole, per il governo gli sconfitti sono gli indipendentisti baschi. Affermazione tanto falsa quanto strumentale.
Infatti – forse per convincersi – il candidato premier del PSOE Alfredo Pérez Rubalcaba continuava a ripetere come un mantra «oggi non è ETA la protagonista». Resta il fatto che il passo verso la pace l’ha compiuto ETA (così come lo compì l’IRA nel ’94).
La parte più difficile, come dice Gerry Adams si apre adesso. «Fare la pace è una sfida enorme. Presuppone cercare di comprendere cosa ha motivato, ispirato, guidato i nostri avversari. Come ricorda Mandela, alla fine richiede di costruire amicizia con il nostro nemico».


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