L’Impotenza e le colpe di fronte alla natura

by Sergio Segio | 26 Ottobre 2011 6:38

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Nell’agosto 1959 Carlo Levi descriveva così la stessa natura afflitta dagli incendi che oggi è prostrata dall’acqua. Sembrano due terre diverse, ma sono la stessa. In estate il fuoco, in autunno la pioggia e i fiumi che straripano. Dove il vento portava l’odore della brace, ora il cielo porta acqua acqua acqua. Acque. Quando l’acqua diventa plurale e si moltiplica in «acque» è segno che è diventata davvero minacciosa. Le acque hanno un che di aggressivo e prorompente che l’acqua non ha.
Qualche anno prima, nel ’51, l’autore di «Cristo si è fermato a Eboli», straordinario cronista di sciagure naturali, aveva raccontato da par suo la tragedia del Polesine chiuso tra l’Adige e il Po, «costruito e distrutto cento volte dalle furie e dalle calme dei fiumi, e dalla pazienza degli uomini». La ferocia del Po la si conosceva, quella del piccolo fiume Vara no. L’effetto però deve essere simile. Perché l’acqua quando diventa acque è sempre dirompente. Così Guareschi raccontò una pioggia biblica che colpì Brescello dopo l’esilio di don Camillo: «Incominciò a piovere. E pioveva dappertutto; al piano e al monte. E le saette spaccavano le vecchie querce, e il mare era sconvolto dalla tempesta, e i fiumi incominciarono a gonfiarsi e, siccome continuava a piovere, presto sfondarono gli argini e allagarono le città  e copersero di fango intere borgate. Il grande fiume si fece sempre più grande e minaccioso e, poco alla volta, le acque incominciarono a premere contro gli argini, e sempre più salivano». Eccole lì, le acque, al plurale. Una bella pagina, degna di un grande narratore. Quell’erompere della natura, che sembrò un segno divino, fece tornare il parroco in paese, richiamato a furor di popolo.
Non è raro che terra e acque si scambino di luogo e di ruolo, specie quando l’uomo non ha nessuna intenzione di vigilare sui loro confini e nessuna capacità  di immaginare l’imprevisto. E in Italia, si sa, succede troppo spesso. È vero, come diceva Leopardi, che la natura matrigna è estranea alle sorti dell’umanità , ma è anche vero che la sua malignità  purtroppo può essere assecondata dalla dabbenaggine degli esseri umani. Anche se rimane una zona oscura, una forza acquattata e indomabile quando si libera.
C’è sempre qualcosa di inconoscibile, per esempio, nel fiume che scorre verso il mare, tant’è che proprio quello scorrere è diventato una delle metafore più abusate della letteratura.
Samuel Beckett è riuscito come pochi a dare il senso di quella imponderabilità  che sfugge al dominio umano, quando racconta il fiume, quasi vissuto dal suo interno, come un’oscura miscela di materiali e di sostanze non solo fisiche che si confondono e si trasformano in continuazione: «Strano inferno, forse è il paradiso, forse è la terra, forse sono le rive di un lago sotto terra (…), non è sicuro, non si vede niente, non si sente niente, si sente il lungo bacio dell’acqua morta e del fango».
È la metamorfosi il carattere della natura. «Scarna, scabra, allucinante» era per Eugenio Montale questa terra. La sua. Ma quando, all’inizio del Novecento, Rosa Luxemburg arrivò a Levanto, la cittadina ieri flagellata dal nubifragio, scrisse di dolci colline appenniniche che, «coperte di olivi e di pini, offrono tutte le sfumature del verde». Come quel verde possa trasformarsi in tutte le sfumature del grigio è un mistero che neanche i meteorologi più attenti forse riusciranno completamente a spiegare. Chi può sapere come e quando e perché l’idillio e l’armonia di un luogo amico possono trasformarsi in tragedia e sgomento, la pace in incubo, l’acqua in acque.

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