Lo scambio di prigionieri è andato a buon fine

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 GERUSALEMME. Nello spazio di poche ore, ieri si è materializzato lo scambio di prigionieri tra Israele e Hamas e si è chiusa una vicenda durata oltre cinque anni. Anni di trattative fallite più volte, segnati dalla davastante offensiva israeliana contro Gaza alla fine del 2008 e giunti a un improvviso quanto sorprendente accordo la scorsa settimana. Il caporale Ghilad Shalit, promosso sergente lunedì sera, è stato liberato da Hamas e, passando per l’Egitto, è rientrato a casa a Mitzpeh Hila, il suo villaggio in Alta Galilea affollato ieri di troupe televisive giunte da tutto il mondo e di migliaia di sostenitori. Nelle stesse ore a Gaza city, i leader di Hamas salutavano con un ricevimento grandioso i detenuti politici scarcerati da Israele, mentre a Ramallah il presidente dell’Anp Abu Mazen ribadiva davanti ad un gruppo di prigionieri e a una folla di migliaia di persone l’impegno a costruire uno Stato palestinese indipendente.

Tante parole e una affollata copertura giornalistica anche ieri hanno alterato una storia, non infrequente nel Vicino Oriente, che invece deve essere raccontata in tutti i suoi aspetti. Troppo spesso è stata spiegata, qui e all’estero, semplicemente come una lotta tra «il bene e il male», tra uno Stato democratico che si difende e una organizzazione terroristica, tra una famiglia che rivoleva a casa il figlio «tenuto ostaggio» e un gruppo di «assassini» che voleva sfuggire ad una giusta punizione. Ma i prigionieri palestinesi, e ne rimangono ancora 5.000 nelle carceri israeliane, non sono tutti responsabili di attentati. In cella ci sono, ad esempio, anche degli adolescenti – lo ricordava proprio ieri Defence for Children – e palestinesi agli «arresti amministrativi», ossia incarcerati per mesi (talvolta per anni) su ordine delle autorità  militari sulla base di semplici indizi e mai processati. Nei Territori il semplice far parte di una organizzazione politica ritenuta terroristica dalle forze di occupazione può costare anni di carcere. Ad alimentare, inconsapevolmente, la lettura deformata di questa vicenda è stato anche Ghilad Shalit. Esile, occhi bassi, il volto dello studente secchione, il militare catturato nel 2006 nei pressi di Kerem Shalom ha dato una immagine mite all’esercito israeliano, uno dei più potenti e meglio armati al mondo. Forze Armate altamente tecnologiche in grado compiere con l’aviazione gli «omicidi mirati» di «terroristi» veri e presunti: palestinesi condannati di fatto a morte che non potranno mai difendersi in un’aula di tribunale. Oggi Gaza sarà  uguale a ieri, nonostante la liberazione di Ghilad Shalit. Una fonte autorevole citata dalla radio statale israeliana ha chiarito che il blocco navale e tutte le restrizioni e misure di sicurezza ai valichi non verranno revocate.
Ieri però hanno festeggiato tutti. Shalit al quale il suo villaggio Mitzpeh Hila, in Alta Galilea, e la sua famiglia hanno riservato una accoglienza straordinaria, fatta di canti, danze e lanci di fiori. «Mi è rinato un figlio», ha detto il padre Noam. E anche i 477 detenuti palestinesi scarcerati (450 uomini e 27 donne). Quelli confinati a Gaza non hanno impiegato molto a capire che da una piccola prigione sono passati in una prigione più grande, a cielo aperto. Shalit è stato accompagnato intorno alle 8 da Hamas a Rafah, al confine tra Gaza e l’Egitto. A trasmettere le prime immagini del soldato libero è stata la tv egiziana. Alle sue spalle c’era Ahmed Jaabari, comandante militare di Hamas. Durante un’intervista, il soldato, apparso in buone condizioni di salute, ha detto di aver saputo dell’accordo una settimana fa. Dicendosi felice per la liberazione di prigionieri palestinesi – ma, ha precisato, «a condizione che tornino alle loro famiglie e abbandonino la lotta» – , ha aggiunto di sperare che lo scambio tra Israele e Hamas «aiuti il processo di pace». Poi è stato portato in elicottero alla base israeliana nei pressi di Kerem Shalom e infine all’aeroporto militare di Tel Nof, vicino Tel Aviv dove ha riabbracciato i genitori, il fratello Yoel e la sorella Hadas. Qui hanno preso la parola il premier Netanyahu – che ha difeso l’accordo con Hamas dalle critiche, definendolo «il migliore possibile» – e il ministro della difesa Ehus Barak. Infine, sempre in elicottero, Shalit ha raggiunto Mitzpeh Hila.
Ad accogliere i prigionieri palestinesi è stata la Croce rossa internazionale. I detenuti sono stati portati con i bus alle prime ore del giorno a Kerem Shalom, al confine con l’Egitto, e nella base militare di Ofer, vicino Ramallah. Le autorità  del Cairo hanno preso in consegna inoltre una quarantina di prigionieri e li manderanno in esilio in Siria, Qatar e Turchia. I detenuti giunti a Ofer sono stati liberati in Cisgiordania poco prima di mezzogiorno: numerosi autobus sono arrivati a Ramallah dove si è tenuta la cerimonia di benvenuto alla Muqata, con il presidente Abu Mazen e lo speaker del Parlamento Abdel Aziz Dweik (Hamas). Al valico di Beitunya sono divampati scontri tra palestinesi e militari israeliani quando si è saputo che i bus con i prigionieri liberati sarebbero passati per un’altra località . Folla in deliro a Gaza City, in piazza della Katiba, dove i detenuti (con fasce verdi e il tricolore palestinese), arrivati con otto autobus, sono stati scortati da tre automezzi militari di Hamas e accolti dal premier Ismail Haniyeh e da 200.000 persone. Nel suo discorso Haniyeh ha annunciato una «sorpresa», ossia l’ingresso nella Striscia di Musa Abu Marzuk, il numero due del movimento in esilio a Damasco. A rallentare di un’ora le operazioni di rilascio è stato il rifiuto di due prigioniere residenti in Cisgiordania di andare al confino a Gaza: Amna Muna, condannata all’ergastolo dal 2003, e Mariam al-Tarabin, in carcere dal 2005 dopo una condanna a otto anni. Le due donne alla fine hanno accettato l’esilio in altri paesi: Muna dovrebbe andare in Giordania, al-Tarabeen in Egitto.


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