LO SCONFITTO È ABU MAZEN

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Semmai il contrario. Nel lapidario giudizio del capo dei servizi segreti interni di Gerusalemme, Yoram Cohen, il baratto «rafforza Hamas e indebolisce Fatah». Meglio: punisce Abu Mazen per aver sfidato Israele alle Nazioni Unite. Così infrangendo il tabù dei tabù israeliani: la disputa con i palestinesi non dev’essere internazionalizzata, ma lasciata all’alquanto asimmetrico confronto fra le parti e alla non proprio equilibrata mediazione statunitense.
Che cosa possiamo leggere tra le righe del patto fra Israele e Hamas? Almeno tre dati balzano agli occhi.
In primo luogo, la sproporzione nello scambio rivela i rapporti di forza. Se uno Stato concede al nemico 1.027 probabili futuri combattenti in cambio di un proprio sottufficiale, vuol dire che si sente terribilmente più robusto. Alla radice dell’impasse negoziale fra Israele e palestinesi sta questa certezza. Essa induce Netanyahu a prendere tempo su un fronte che non considera né strategico né pericoloso. Resta valido il dogma dell’ex consigliere di Sharon, Dov Weisglass, per cui la pace con i palestinesi si farà  «solo quando saranno diventati finlandesi». Semplicemente, Israele è convinto di non aver bisogno di risolvere la «questione palestinese», che di fatto non esiste. Lo status quo va bene.
Secondariamente, Hamas è il miglior nemico possibile per Netanyahu. Bollata come organizzazione terroristica, dotata di uno statuto che tuttora prevede la liquidazione dello Stato ebraico (anche se i suoi leader più pragmatici da tempo evitano di ripetere questo slogan), Hamas è stata incentivata da Gerusalemme fin dagli anni Settanta. Lo scopo: costruire un contrappeso islamista al nazionalismo di Arafat, allora assai più minaccioso. Dividere i palestinesi per meglio controllarli.
Intanto Hamas festeggia i primi prigionieri liberati e la sua piazza canta «vogliamo un altro Shalit». In teoria, con altri sette soldati catturati e scambiati secondo la stessa unità  di misura – uno contro mille – tutti i militanti palestinesi che ancora languono nelle carceri israeliane tornererebbero fra i loro cari. Ossia in campo contro Israele.
Terzo, Netanyahu rafforza la sua immagine domestica. Quattro israeliani su cinque sono d’accordo con la sua scelta. Comunque vada, il premier passerà  alla storia come il liberatore del soldato Shalit. Per il quale si era formato in patria un movimento assai visibile e influente. Certo, non mancano le voci critiche, specie nell’ultradestra, a cominciare dai tre ministri che hanno votato contro la decisione del premier. Ma Netanyahu è convinto di aver preso la decisione giusta al momento giusto: «Ora o mai più».
La scelta dei tempi non è casuale. Gerusalemme è sempre più isolata nella regione e nel mondo. La «primavera araba», secondo Netanyahu, è una iattura. Nella sua visione antropologica degli arabi, questi non sono e non saranno mai maturi per la democrazia e per la pace. I sommovimenti in corso attorno ad Israele significano la perdita di un fedele amico (Mubarak), di due provati nemici del terrorismo islamico (Ben Ali e Gheddafi), oltre alla possibile caduta di un avversario di carta (Assad), e soprattutto all’affermazione di un ex alleato speciale – la Turchia di Erdogan – come potenza regionale ostile. Sicché bisognava riportare a casa Shalit adesso, perché i rapporti con tutti i vicini, specie con l’Egitto, principale mediatore nei negoziati Hamas-Israle, tendono a peggiorare. Domani, forse, non ci sarà  più spazio per trattare, neanche sottobanco. Semmai riparleranno le armi.
Alcuni analisti israeliani considerano infatti la mossa di Netanyahu come propedeutica alla guerra preventiva contro l’Iran. Necessaria per sovvertire l’inerzia negativa della “primavera araba”. Ma gli arabi non sono una minaccia mortale. Solo la potenza persiana, se dotata dell’arma atomica, sarebbe in grado di distruggere Israele. Da tempo Gerusalemme lavora ai dettagli di un attacco ai siti nucleari iraniani. La maggioranza dell’establishment militare israeliano lo considera una follia. Netanyahu no: è un’opzione. L’ultima parola spetterà  a lui.


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