Lo spettro Lehman torna tra le banche

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Ottobre 2008, ottobre 2011. Siamo di nuovo al punto di partenza. La crisi ha fatto un giro, bruciando risorse pubbliche per migliaia di miliardi di dollari, euro, yen. Ma il sistema bancario globale – inchiodato tre anni fa dal fallimento di Lehman Brothers, quarta banca d’affari degli Usa e del mondo – sta vivendo di nuovo un credit crunch. Tradotto: le banche non si prestano più soldi tra loro, figuriamoci ai clienti «normali» (imprese e privati).
La Cnn titolava in prima pagina, l’altroieri sera, «È Morgan Stanley la prossima Lehman?». A seguire un’analisi dettagliata della quantità  di titoli di stato dei Piigs europei, a partire da quelli greci, che giacciono tra gli asset del colosso; minandone la solidità . Morgan Stanley è seconda soltanto a Goldman Sachs (che ieri ha diffuso stime molto grame sulla crescita globale e perfino una stagnazione europea nel 2012); un suo eventuale default avrebbe conseguenze sistemiche inimmaginabili.
Sui mercati europei, invece, le banche preferiscono depositare i propri soldi presso la Bce – a tassi molto inferiori a quelli dimercato – pur di non rischiare una mancata restituzione. Il tasso overnight (che misura il rischio del prestito interbancario) è tornato ai massimi livelli, come due anni e mezzo fa. Dopo Lehman.
Al centro dell’attenzione resta la crisi greca, naturalmente; e soprattutto il modo ondivago con cui le istituzioni internazionali stanno affrontandola. Ieri notte l’Eurogruppo – i ministri finanziari della zona euro – ha rinviato un’altra volta il versamento della sesta tranche di aiuti ad Atene, seminando incertezza aggiuntiva. Peggio. Ha rinviato anche la prevista riunione del 13 ottobre, che aveva proprio questa decisione all’ordine del giorno. Allo stesso tempo ha chiesto «misure supplementari» a quelle già  accettate da Papandreou per sbloccare il piano di salvataggio. Mentre la Finlandia, in totale autonomia, ha raggiunto un accordo con il governo greco per avere «garanzie collaterali» esclusive in cambio della percentuale finnica di aiuti. Quel che stupisce è la sproporzione mostruosa tra i «risparmi» ottenuti licenziando decine di migliaia di statali, ecc (6,6 miliardi), e la dimensione del «secondo piano d’aiuti»: 109 miliardi.
Un discreto caos, non certo diminuito dal compromesso con cui l’Eurogruppo ha deciso di «rafforzare» il fondo di stabilità  Efsf: tramite un «effetto leva», ovvero a debito, ma senza incrementare il capitale posto a garanzia. Il problema è come fare a non perdere la «tripla A» necessaria perché questo fondo possa reperire capitali a un tasso moderato; le agenzie di rating potrebbero non gradire l’escamotage.
Con queste premesse le borse non potevano che cedere clamorosamente terreno, soprattutto nel settore bancario. Tanto più che proprio ieri Deutsche Bank – non proprio un nanerottolo – ha tagliato le stime sull’utile 2011; nel terzo trimestre saranno anche necessari accantonamenti per 250 milioni a seguito di svalutazioni legate ai bond greci. E non basteranno i 500 licenziamenti subito messi in cantiere per tappare il buco. Anche gli altri colossi del credito continentali hanno perso percentuali oscillanti tra il 5 e l’8% (con la franco-belga Dexia oltre ogni limite).
Alla fine, dopo un’apertura di Wall Street che minacciava sfracelli – -2,32% – è toccato ancora una volta a Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve Usa, vestire i panni del grande tranquillizzatore. Davanti al Congresso ha spiegato che l’occupazione non crescerà  a breve, e che «le tensioni finanziarie hanno intaccato il morale delle famiglie e delle imprese». Ma la Fed vigila. E anche se non ci sono «piani immediati» per un terzo episodio della saga «quantititive easing» (iniezioni di liquidità  pubblica), la banca centrale «è pronta a fare di più per aiutare una ripartenza più decisa dell’economia». Può farlo perché le stime sull’inflazione, nel 2012, restano intorno al livello considerato ottimale: il 2%. Ma avverte comunque che «la politica monetaria è uno strumento potente, ma non è la panacea per i problemi dell’economia statunitense».
Tanto è bastato per risollevare il morale degli operatori di borsa, che hanno potuto ridurre le perdite in Europa e addirittura vedere un timido guadagno negli Usa. Poi Wall Street è tornata a cadere. Perché il dato strutturale resta fermo: è possibile uscire da una crisi globale contando soltanto sulla «liquidità » che alcuni stati – sempre meno – cercano ancora di garantire? Non serve una laurea per rispondere…


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