L’ultima profanazione del corpo del tiranno

by Sergio Segio | 21 Ottobre 2011 6:39

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Quando si rese conto che l’avevano preso gli americani, Saddam Hussein si sentì sollevato: mentre lo tiravano fuori da quella buca nella campagna di Al Oja, il suo villaggio natale, il Raìs proclamò che era il presidente dell’Iraq e che voleva trattare. Sapeva che, fosse caduto nelle mani di connazionali come «Ali il Macellaio», sarebbe stato massacrato subito, la sorte toccata ieri a Muammar Gheddafi. Invece Saddam visse altri tre anni, imparò a mangiare i Doritos dei suoi giovani carcerieri Usa, andò a processo con il fazzoletto nella giacca dell’abito scuro. Fino alla fredda notte del 30 dicembre 2006, quando salì al patibolo con il cappotto in una caserma di Bagdad. Nelle ore precedenti «Ali il Macellaio», un miliziano sciita seguace di Moqtada al Sadr, lo perseguitò entrando nella cella a intervalli regolari per mostrargli il cappio: «Questa corda ti aspetta, ti aspetta».
Gheddafi non ha avuto né processo né esecuzione con dileggio finale. È morto per mano di quella «folla» di connazionali che nel racconto «Fuga all’inferno» il Colonnello diceva «di amare e di temere» al tempo stesso. Devozione e ferocia, come «le masse che prima sostennero Robespierre, Mussolini, Nixon» e poi «di quanta crudeltà  furono capaci nel momento dell’ira». Gheddafi sapeva che non avrebbe avuto scampo. L’ora della cattura per lui è coincisa con l’ora della fine. Non è morto combattendo, come accadde ai figli di Saddam Hussein nel luglio 2003 in una casa di Mosul bombardata dai cannoni del generale Petraeus. Gli americani decisero di mostrare le foto di Uday e Qusay — i loro corpi ricuciti in qualche modo, i volti tumefatti — per dissipare i dubbi sulle loro identità , corredando le immagini con le lastre a raggi X di Uday. Anche se le impronte digitali sarebbero state sufficienti, dissero gli anatomopatologi alle tv Usa. Ma la pubblica esibizione del capo ucciso è una costante che percorre la storia fino ai nostri giorni. A Saddam fu risparmiata la foto «ufficiale» post mortem, le zoomate con i particolari del cadavere: funzionari governativi iracheni e miliziani di Moqtada ripresero l’esecuzione e poi il corpo del Raìs avvolto in un lenzuolo bianco — un grumo rosso dove il cappio era entrato nella carne — prima di consegnarlo alla sua tribù. Fu sepolto a Al Oja accanto ai figli e al nipotino di undici anni ucciso dai cannoni Usa. Una sorta di mausoleo bianco che negli anni non ha attirato molti nostalgici, anche se recentemente il governo di Bagdad ha proibito le visite di gruppo.
Altra sepoltura per Muammar Gheddafi, altro telefonino a riprendere il suo corpo senza vita: le immagini mosse del Colonnello trascinato per terra o spinto contro il pick up dai ribelli urlanti sono più cruente di quelle che testimoniano la fine di Saddam, anche se ci risparmiano lo spettacolo freddo e «istituzionale» dell’impiccagione in nome del popolo sovrano. La schiena nuda del dittatore libico nella polvere ha qualcosa che ricorda la fine di Samuel Doe, l’uomo forte della Liberia torturato e ucciso da altri signori della guerra il 9 settembre del 1990 a Monrovia. Le foto dei miliziani che posano con i fucili puntati sul cadavere svestito sulla barella, il video (a lungo bestseller nei mercati dell’Africa occidentale) che mostra il leader dei miliziani torturatori — Prince Johnson — che sorseggia una birra Budweiser mentre i suoi uomini tagliano un orecchio a Doe. Prince Johnson oggi è un rispettabile senatore, ago della bilancia della politica liberiana: appoggia la neo-Nobel per la Pace Ellen Johnson Sirleaf al secondo turno delle elezioni presidenziali. Anche i torturatori si riciclano. Prince Johnson s’infuriò quando il prigioniero Doe morì di emorragia cerebrale lanciandosi contro la finestra del bagno che gli faceva da cella tra una tortura e l’altra: avrebbe voluto «lavorarselo» ancora un po’. D’altra parte, anche un rispettabile accademico come il libanese Fouad Ajami della Stanford University ci invita a non occuparci troppo della liceità  di quanto successo a Sirte, perché «è sentimento condiviso da molti arabi che per certi carnefici-dittatori morire una volta sola è troppo poco». Altro che processo, dice Ajami. A Gheddafi gli hanno fatto un favore a farlo fuori subito.
Davanti alle immagini girate con i telefonini che arrivano dalla Libia persino il processo-farsa a cui furono sottoposti Nicolae Ceausescu e sua moglie Elena in Romania nel 1989 sembra quasi un esempio di strutturata legalità . L’interrogatorio del leader comunista e della zarina di Bucarest fu mandato in onda alla tv come i fermo-immagine dei loro corpi un po’ scompigliati dopo la fucilazione.
I cadaveri furono sepolti in una fossa che per anni è rimasta anonima, come quella che ospiterà  probabilmente il Colonnello. Il suo volto nella polvere, con il pizzetto tutto sommato curato per un fuggiasco come lui (pensate al barbone di Saddam quando fu preso), fa venire alla mente una racconto popolare riportato dallo scrittore Hisham Matar. Un giorno negli anni 80 Gheddafi ebbe un incubo: sognò che andava dal barbiere e questo gli tagliava la gola. Si svegliò convinto che a ucciderlo sarebbe stato un barbiere. Così emanò un editto che chiuse tutti i parrucchieri per giorni. Potenza di un dittatore.

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