Obama: «Non so se posso farcela»

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NEW YORK — «La mia rielezione sarà  dura: l’economia sta uscendo da una recessione mondiale, la gente ha perso fiducia». Un momento di debolezza? Le parole di un presidente che continua a combattere, ma è demoralizzato e si sfoga nel bel mezzo di una cena a Georgetown, a due passi dalla Casa Bianca, davanti a poche decine di amici che finanziano la sua campagna?

Ipotesi suggestiva ma da escludere. Barack Obama e il suo staff sanno da tempo di avere davanti una corsa tutta in salita. Giorni fa lo ha detto, con altre parole, lo stratega della sua campagna, David Axelrod: «Quella della rielezione nel 2012 sarà  una battaglia titanica. Il vento soffia contro di noi». Anche quelle parole fecero sensazione, salvo che Axelrod le aveva completate aggiungendo che «nella battaglia, comunque, noi siamo dalla parte giusta. Sono assolutamente certo che vinceremo perché i repubblicani stanno riproponendo la stessa strategia che ha portato a questa catastrofe». Soprattutto, Axelrod ha già  predisposto un piano alternativo per cercare la vittoria in Stati che potrebbero risultare meno ostili di un tempo ai democratici per il cambiamento del loro profilo demografico (più immigrati e giovani professionisti, come nel caso del Colorado). Verrebbe compensata, così, l’emorragia di consensi tra gli operai e l’elettorato bianco: un trend che potrebbe far perdere a Obama Stati industriali come l’Ohio e il Michigan.

Il presidente vede ciò che vedono tutti: il Paese si impoverisce, crescono i disoccupati. I giorni dell’adulazione sono ormai un ricordo lontano, la sua popolarità  è ai minimi nonostante i successi nella lotta al terrorismo. I sondaggi lo danno in leggero svantaggio in un ipotetico confronto per la Casa Bianca tra lui e Mitt Romney. Ed è testa a testa (col presidente in leggero vantaggio) anche in una contesa col semisconosciuto Chris Christie, il governatore del New Jersey che sta emergendo a sorpresa nel fronte conservatore.

Ma non è a questo, né ai numeri dell’elezione del 2008 (il 54 dei suffragi, 8,5 milioni di voti in più di McCain) che Obama pensava venerdì sera pronunciando un discorso attentamente calibrato e limato dal suo staff. Quando ha preso la parola a casa di James D’Orta, un medico molto attivo come fundraiser del Partito democratico, il presidente pensava ad altri numeri: tre milioni di donatori che nel 2008 hanno dato 639 milioni di dollari alla sua campagna, 35 mila gruppi di volontari che hanno lavorato con determinazione ed entusiasmo per mesi (molti quasi un anno) per convincere gli incerti a sostenere il leader democratico con un asfissiante «porta a porta», centinaia di milioni di telefonate, un miliardo di email.

Oggi Obama non sta pensando a quanti americani delusi verranno scossi dai suoi ultimi appelli e torneranno, tra 14 mesi, a votarlo. Il suo problema adesso è quello di ricostruire la macchina da guerra che dette le ali alla sua vittoria del 2008. Centinaia di migliaia di volontari, molti dicono più di un milione. Dopo l’elezione il presidente ha cercato inutilmente di tenerli insieme: delusione e scoramento hanno prevalso tra ragazzi che, illusi dalle promesse di cambiamento, hanno visto il loro presidente arretrare di continuo alla ricerca di compromessi coi repubblicani, prigioniero di quella Washington politica che aveva giurato di rivoltare.

Oggi è questo il problema più urgente che Obama deve risolvere: come ricostruire un esercito di volontari? Come convincere gente delusa, prima ancora che a votarlo, a finanziarlo e a lavorare gratis per lui? Su questo lui è stato chiaro anche venerdì sera: «L’unico modo per essere rieletto è fare in modo che tutti voi vi impegniate a questo scopo. Spero che siate pronti a un anno di duro lavoro».

Questo è il suo vero messaggio. Accompagnato da un doppio cambio di strategia: da un lato la maggiore attenzione per gli Stati del Sud-Ovest, ma anche la Virginia e il North Carolina nei quali Axelrod, come dicevamo prima, vede un’evoluzione del tessuto sociale e del mosaico etnico che può favorire i democratici. Dall’altro lo spostamento dall’enfasi sul personaggio Obama (storia personale, carisma, promesse) che fu il combustibile della campagna del 2008, all’attuale sottolineatura non di quello che l’America può ancora avere da Barack, ma di quello che progressisti e ceti medi delusi rischiano di perdere se non si muovono e lasciano vincere il candidato repubblicano: «Vogliono abolire le leggi che tutelano l’ambiente, ridurre il ruolo dello Stato nell’istruzione dei nostri figli, tagliare ricerca e innovazione», ha detto l’altra sera Obama. E lo ripeterà  in ogni piazza, fino alla nausea.

Parole che possono risvegliare. Ma che siano anche adatte a «ritrovare l’entusiasmo del 2008» e a «ridare al nostro popolo il sogno americano», come Barack ha detto a casa D’Orta, è tutto da vedere.


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