“E’ il debito pagato a Sacconi” la confederazione attacca Marchionne

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ROMA – La telefonata di John Elkann a Emma Marcegaglia è arrivata intorno alle 22,30 di domenica: «Usciamo da Confindustria. Vogliamo fare come la Volkswagen: avere i nostri contratti senza alcuna assistenza sindacale». Nessun accenno all’accordo del 21 settembre scorso, firmato da Marcegaglia, Cgil, Cisl e Uil nella foresteria confindustriale di Via Veneto. L’intesa che nei fatti sterilizza la norma “ad aziendam” inserita dal governo nella manovra di agosto per blindare a Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco il “modello Marchionne”, più ritmi, più flessibilità  e meno sindacato. E invece nella lettera di ieri, quello è diventato il vero motivo dello strappo. Che più che la Fiat trasforma la Confindustria. Perché senza la più grande multinazionale privata, d’ora in poi, Viale dell’Astronomia sarà  un’altra cosa. È difficile non vedere che accrescerà  il peso politico delle conglomerate pubbliche, Eni, Finmeccanica, Enel, Ferrovie, Poste (le ex partecipazioni statali, insomma, associate ai tempi dell’Iri, nell’Intersind) e che la Confindustria sarà  sempre di più l’associazione dei piccoli industriali e di quel “quarto capitalismo” che non è mia riuscito a pesare nei rapporti con la politica. «Marchionne – è la tesi di Giuseppe Berta, storico dell’industria alla Bocconi di Milano – ha dato una picconata mortale alla Confindustria che vede come il simbolo di un’Italia approssimativa, pasticciona, che fa politica più che rappresentanza di impresa».
Emma Marcegaglia ha assorbito il colpo domenica, ma non quello di ieri. E dunque, accuse durissime, gli uni contro gli altri. Come in tutti i lunghi matrimoni che finiscono male. C’è lo zampino del governo, sostengono a Viale dell’Astronomia. Si pensa – e si dice – : «Questo è il debito che Marchionne ha pagato a Sacconi. D’altra parte si era già  visto con le critiche che proprio Elkann ha rivolto al manifesto delle imprese per la crescita. L’ha definito un “proclama” quando sono delle proposte concrete». La replica, ieri sera, da Torino: «Noi non facciamo politica. Il nostro non è un appoggio a Berlusconi». Due culture imprenditoriali contrapposte. Marchionne ha maturato una sorta di allergia per i bizantinismi confindustriali. La riprova anche ieri. Confindustria – con una nota – ha voluto minimizzare il peso della Fiat nel sistema: rappresenta l’1 per cento, per una somma pari a poco meno di 5 milioni di euro. Risposta, velenosa, dall’entourage del manager italo-canadese che guida anche la Chrysler: «Se il nostro gruppo pesa per l’1 per cento, cioè per 5 milioni, vuol dire che l’intero apparato costa 500 milioni di euro. Tanto. Forse potrebbe essere gestito meglio e in maniera più redditizia».
Marchionne non ha mai perdonato le parole che Emma Marcegaglia inserì a braccio nella relazione all’ultima assemblea: «Sono finiti i tempi – disse – in cui poche aziende decidevano l’agenda di Confindustria. Non pieghiamo le regole della maggioranza per le esigenze di un singolo». Marchionne ora se n’è andato. Marcegaglia terminerà  il suo mandato a maggio. E i giochi per la successione si stanno forse semplificando. C’è un solo – per quanto non ufficiale – candidato forte: Giorgio Squinzi, attuale vicepresidente, patron della Mapei che per lunghi anni ha guidato la Federchimica. Squinzi è la scelta gradita alla Marcegaglia. La Fiat, e i metalmeccanici, lo avrebbero contrastato. Ma ora è tutto cambiato. Anche se ieri Gianfelice Rocca, presidente di Techint, vice della Marcegaglia ha confermato all’assemblea degli industriali bergamaschi che non intende correre, aggiungendo però: «Spero che da Bergamo possano partire altre candidature». Riferimento chiaro ad Alberto Bombassei, altro vice presidente di Confindustria, che ha rotto con la Marcegaglia, che si è schierato di fatto con la Fiat, che se fosse dipeso da lui non avrebbe sterilizzato l’articolo 8 della manovra del governo. Bombassei, però, pare pensi ormai solo alla sua Brembo. Ciascuno per sé.


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