Quota 316, i timori della maggioranza «Malpancisti» chiamati uno per uno

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ROMA — «Il re è nudo e qualcuno deve pur dirlo. Non possiamo consegnare il Paese al giustizialismo e all’antipolitica solo perché Bossi deve regolare una partita interna. Il leader della Lega vada a Ponte di Legno e la smetta di offendere il meridione e Roma, la città  che gli ha dato onore e prestigio…».

Così Luciano Sardelli alle nove di sera, quando le certezze di Palazzo Chigi cominciano a vacillare. Salvo ripensamenti dell’ultimo minuto l’ex capogruppo dei «responsabili» di Popolo e territorio non voterà  la fiducia al governo, con la speranza che «altri deputati trovino il coraggio di chiedere un passo indietro al premier».

Per tutto il giorno Denis Verdini ha chiamato uno a uno i malpancisti e anche Silvio Berlusconi si è speso in prima persona, telefonando e ricevendo a palazzo Grazioli i più recalcitranti. «Se otteremo la fiducia? Sì, vorrei vedere…», aveva detto il premier al mattino. Ma poi, un minuto dopo l’altro, quelle che parevano granitiche certezze cominciano a erodersi. Quota 320 si allontana e Fabrizio Cicchitto con sano realismo si accontenta di ragionare attorno alla soglia dei 315: un voto sotto l’autosufficienza numerica sarebbe già  un traguardo. Ma tutto può succedere. L’asticella rischia di scendere ancora, giù fino a 313 e oltre. L’esecutivo avrebbe i numeri, ma forse non la forza per governare.

Claudio Scajola non staccherà  la spina e per tutto il giorno ha lavorato per tenere a bada le sofferenze dei suoi. Eppure anche l’ex ministro sa bene che i colpi di scena sono dietro l’angolo e che al non voto di Giustina Mistrello Destro può sommarsi quello di Fabio Gava. E poi, chissà . Berlusconi è preoccupato. E molto. Il clima della vigilia ricorda il 14 dicembre, quando per soli tre voti, 314 a 311, grazie ai dipietristi pentiti Scilipoti e Razzi e al tradimento dei finiani Moffa e Polidori, riuscì a respingere l’assalto di Fini e Casini.

Si è trattato fino a notte fonda, Verdini ha rassicurato, placato, garantito, promesso. E ai tiggì della sera ha dichiarato di essere tranquillo, anzi ottimista: «La maggioranza con il voto di fiducia si allargherà  ancora». L’amo agli incerti lo ha lanciato lo stesso premier in mattinata, quando ha invitato tutti i deputati a far pervenire «suggestioni positive» e a incontrarlo nel corso di «colloqui che siamo disponibili a tenere nei prossimi giorni». Le ore successive sono state scandite da una raffica di telefonate e incontri, dal cui esito dipenderà  il voto di oggi. Nei giorni scorsi Antonio Di Pietro è tornato in Procura per denunciare una «presunta compravendita di deputati» e se anche i sospetti del leader dell’Idv dovessero rivelarsi un buco nell’acqua, fa una certa impressione raccogliere i boatos del Transatlantico e sentir parlare di poltrone e soldi, tanti, fino a 200 mila euro per ogni singolo voto strappato alle opposizioni. A dicembre Massimo Calearo, ex veltroniano ed ex rutelliano ora nel gruppo Misto, parlò al Riformista di quotazioni «dai 350 mila al mezzo milione di euro».

Il «guastatore» Luciano Sardelli, già  capogruppo dei Responsabili, giura di non aver trattato. Ha visto Verdini, poi però ha maturato lo strappo: «Parlerò e dirò a Berlusconi che questa agonia non può durare, che per salvaguardare il suo patrimonio politico e l’intero centrodestra è un bene che lui apra gli occhi, salga al Quirinale a passi dalla responsabilità  di una parte alla responsabilità  nazionale». Davvero non voterà  la fiducia, onorevole Sardelli? «Invito tutti coloro che vogliono bene a Berlusconi e all’Italia a permettere che sia approvato l’emendamento al rendiconto, ma a far sì che non ci sia una maggioranza qualificata sopra i 315 voti. Un risultato che consentirebbe la nascita di un governo di larghe intese».

Sardelli spera di non essere solo. Tra color che stan sospesi (e guardano a Casini) ci sarebbe Antonio Milo, anche lui di Noi Sud, e un altro inquieto esponente di Popolo e territorio. Michele Pisacane non ha sciolto la riserva, ma come Sardelli ha a cuore gli interessi del meridione: «Deciderò solo al momento del voto». Il nervosismo degli ex Responsabili è tra i fattori che fanno ballare i numeri, prova ne sia che il berlusconiano Mario Pepe li ha messi a tavola a cena in un ristorante di piazza Capranica per placarne i maldipancia. Anche Scajola ha attovagliato i suoi, ma sembra non aver convinto tutti. Il «ci dormirò su» con cui Gava ha salutato Berlusconi a palazzo Grazioli (dopo avergli detto tutta la sua «delusione» per il discorso alla Camera) non lascia tranquillo il premier, già  preoccupatissimo per altri, non rassicuranti segnali arrivati dalla maggioranza. È vero che Scajola è riuscito a placare Roberto Antonione? Ci si può fidare della parola di Francesco Nucara, che resta scontento ma ha promesso il suo voto di fiducia? Davvero non è possibile recuperare l’ex ministro Calogero Mannino, che ha votato contro il rendiconto? E come si fa a essere certi che altri scajoliani non diserteranno l’Aula? Paolo Russo parla di «triste decadenza», ma spiega che Scajola e i suoi sanno di «essere determinanti» e puntano a dettare la linea dall’interno.

Questi e mille altri dubbi assillano il premier, rassicurato solo un po’ dalla posizione dei radicali che pure voteranno «no», ma ieri erano gli unici esponenti delle minoranze in Aula. Il voto di fiducia sulla manovra, il 14 settembre — con Papa in carcere, Franzoso in ospedale, senza Gaglione che non vota mai e senza Mannino — è finita 316 a 302. Ma poi Santo Versace ha rotto col Pdl e non tornerà  indietro, nonostante le profferte di Verdini. Si dice che Giovanni Tortoli potrebbe non votare, Filippo Ascierto è infortunato a una gamba e si vocifera di un arrivo in elicottero. Eppure Verdini è andato a dormire tranquillo: «Aumenteremo i numeri. Siamo tra 316 e 320…».


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