Tra i ribelli della città  fantasma “Abbiamo vendicato i martiri ora Sirte è la tomba del tiranno”

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SIRTE – I campi di battaglia, anche quelli dove si chiude un’epoca storica, non hanno nulla di eroico. Lo spazio sabbioso a lato di una delle strade di uscita da Sirte, dove è finita l’epoca di Gheddafi, sarebbe quasi banale se non fosse per i cadaveri anneriti tra le carcasse di auto incendiate. Quando arriviamo ai resti del convoglio su cui Gheddafi, all’alba di giovedì scorso, ha cercato di fuggire dalla città  che aveva creato per magnificare la sua potenza, gli uomini della Mezzaluna Rossa di Misurata stanno allineando le salme raccolte qui intorno. Sul terreno ci sono già  36 sacchi bianchi in file ordinate, un pick up arriva con un nuovo carico, mentre un ragazzo, senza neanche una mascherina per proteggersi dall’odore nauseabondo, si aggira tra gli scheletri delle auto e ispeziona i cadaveri bruciacchiati rimasti a terra, ai quali coperte a fiori hanno solo parzialmente offerto un po’ di pietà . «Non hanno neanche un nome – dice scuotendo la testa – sulla piastrina di riconoscimento c’è soltanto il numero». Erano i fedeli del colonnello, la sua guardia scelta, che lo ha protetto fino al tunnel di scolo dal quale è stato trascinato fuori vivo, come sono pronti a confermare tutti, qui intorno.
L’ultimo rifugio di Gheddafi è a meno di trenta metri di distanza dal punto in cui il convoglio è stato annientato ed è già  un monumento. Lo hanno eretto tale le tante scritte – le frasi “Qui è stato trovato il ratto”, “La vittoria dei ribelli di Misurata”, “I martiri sono vendicati” che si sovrappongono l’una all’altra – ma soprattutto i gruppetti di ribelli che vengono a farsi fotografare chini di fronte al canale mentre fanno il segno di vittoria, o mentre raccolgono i bossoli che formano un tappeto sul terreno.
Fermo sulla strada, proprio sopra il canale, c’è un pick up con tre uomini in uniforme. Osservano la scena e i loro visi non nascondono il disappunto. «Si vede che questa gente non sa cosa è successo davvero a Sirte – dice uno di loro in buon inglese – altrimenti non riuscirebbero a sorridere». In città  si diffonde la notizia dell’autopsia al raìs: i resti saranno restituiti alla famiglia. «Un atto di pietà », commentano i più ragionevoli.
Ali Elojla è arrivato nell’ultimo baluardo del gheddafismo un mese fa da Bengasi. «Sono un ingegnere diventato soldato mio malgrado – racconta senza mai togliere il dito dal grilletto del kalashnikov – a 31 anni ho dovuto imbracciare il fucile e andare a cercare mio fratello, ostaggio di Gheddafi». Gli si riempiono gli occhi di lacrime mentre racconta: «È un medico, era venuto a Sirte per aiutare, curava tutti, voleva soltanto salvare delle vite – dice quasi urlando – poi è scomparso, non so più nulla di lui. I medici sono sacri, ma per quel porco non c’era niente di sacro». Ha cercato il fratello casa per casa e continua a farlo: «La guerra non è finita, ci sono ancora dei cecchini, anche ieri abbiamo trovato degli uomini di Gheddafi nascosti in uno scantinato». La domanda «Che cosa ne avete fatto?» ha come risposta: «Noi libici abbiamo una mentalità  aperta, vogliamo la pace, vogliamo costruire la democrazia. Sono pronto a restituire le armi, ma non è ancora il momento».
Troppo presto per lasciarsi alle spalle il peggio, sembra confermare l’atmosfera da città  fantasma di Sirte. Passata Misurata, sulla strada dritta che corre in mezzo al deserto, non si incontrano auto che vanno verso l’ultima roccaforte del colonnello. In direzione contraria incrociamo convogli di mezzi blindati, pick up con le armi leggere, tir degli aiuti umanitari.
Su ogni portabagagli, insieme all’artiglieria, c’è un pezzo del fasto della città  che Gheddafi voleva di rappresentanza. Si portano via le macchinine elettriche in uso sui campi da golf, i lettini di plastica da bordo piscina, intorno alla canna di un lanciarazzi è avvolto, e assicurato con grande cura, un tappeto nuovo e pulito, blu e azzurro. A circa 50 chilometri da Sirte, la strada si anima d’improvviso, ci sono ruspe e camion che rimuovono uno sbarramento, si è creata una fila di poche auto. In una c’è una famiglia, i due bambini non hanno più di cinque anni, dicono che abitavano a Sirte ma non torneranno in città , si fermeranno fuori dove hanno lasciato dei dromedari al pascolo. In effetti le bestie, insieme ai mezzi dei soldati in senso contrario, sono l’unico segno di vita in una landa desolata, finché si cominciano a vedere le colonne di fumo nero.
All’ingresso della città  ci fermano e si convincono a lasciarci entrare soltanto quando gli diciamo che vogliamo andare «dove hanno stanato il topo». Dicono di non volere auto a intralciare i convogli in uscita, la trattativa si fa con un uomo emaciato e dall’aria stanca. Ha 41 anni, ma ne dimostra 60, e dopo l’offerta di un pacchetto di sigarette si lascia andare, senza che gli si facciano domande. La prima cosa che dice è «Ho perso tanti amici a Sirte, nella battaglia più dura a Wadi Jaref, vicino all’aeroporto, sono morte almeno 250 persone». Si chiama Ramadan Ali Muhammed Garghor e viene da Misurata, dove, racconta, ha cominciato a combattere «con sette coltelli in mano e due asce».
Vicino a lui un ragazzo giocherella con un paio di manette e alle loro spalle, 50 metri più in là , c’è un piccolo drappello intorno a quelli che sembrano prigionieri, non più di una trentina, tutti di pelle molto scura. «Ne abbiamo presi oltre 175 – conferma Garghor – quelli rimasti li porteremo a Misurata e li giudicheremo». Non ci lasciano avvicinare, non rispondono alla domanda se, dicendo «quelli rimasti», si riferisce a quelli ancora vivi o quelli ancora da portare via.
Un pick up bianco, in condizioni molto migliori di quelli visti finora, ci viene incontro. Sono volontari civili di Misurata, curano alcuni feriti che non è stato ancora possibile portare via e ci dicono che non si può arrivare all’ospedale. Non vogliono dare i nomi, coprono dei tesserini che hanno al collo e dicono soltanto: «Peccato non lo abbiano preso vivo, avremmo dato un’immagine migliore della nuova Libia». Nell’uscire dalla città  di macerie, la scritta in inglese su uno dei tanti cartelli celebratori che Gheddafi aveva sparso per tutto il Paese sembra amara ironia: «Lunga vita all’Africa forte e unita», come se si potesse parlare di vita, a Sirte.


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