Tunisia, la prova del voto per la primavera araba

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LA “Primavera araba” affronta in queste ore il suo primo esame d’ammissione alla democrazia, mentre la violenza, repressiva o insurrezionale, non si è ancora spenta.
È dunque in un clima di intensa emozione che i tunisini, ai quali spetta di inaugurare la nuova stagione politica, eleggono oggi l’Assemblea costituente. La “Primavera araba” affronta in queste ore il suo primo esame d’ammissione alla democrazia, mentre la violenza, repressiva o insurrezionale, non si è ancora spenta. È dunque in un clima di intensa emozione che i tunisini, ai quali spetta di inaugurare la nuova stagione politica, eleggono oggi l’Assemblea costituente. Essi vanno alle urne accompagnati da notizie che annunciano sangue. Nella limitrofa Libia la lotta di liberazione si è conclusa con la sbrigativa esecuzione del raìs, il cui cadavere campeggia ovunque, su video e giornali: e invece nella lontana Siria il raìs ancora al potere cerca di schiacciare la rivolta facendo migliaia di vittime. E c’è l’ombra del grande Egitto, che nell’attesa delle elezioni di novembre è come un cratere bollente.
La Tunisia figura da prima della classe poiché è stata teatro della rivolta (17 dicembre-14 gennaio) servita da esempio a quelle poi esplose in Egitto, nel Bahrein, in Libia, in Siria, dove si muore ancora. I due principali criteri per giudicare il voto dei suoi cittadini sono il modo in cui si svolgerà  la consultazione e le dimensioni dello scontato successo degli islamisti. Ancora una volta la piccola Tunisia avrà  dunque un ruolo d’avanguardia, poiché servirà  da termometro per misurare le condizioni della primavera araba. Sopravvive? Continua a fiorire democraticamente? Sta per appassire o è già  sfiorita sotto l’incombente minaccia dell’integralismo islamico, non più arginato dalla miserabile intransigenza dei rais, fino a pochi mesi fa repressori apprezzati dall’Occidente? Meglio comunque non dare ascolto ai censori, profeti di sventura che, dimenticando quanto sia costato al Novecento europeo, in decenni e in milioni di morti, la conquista della democrazia, salgono in cattedra ed esigono dal mondo arabo tempi ultrarapidi per raggiungere quel difficile traguardo. Non è del tutto infondato prevedere controrivoluzioni e restaurazioni. Più che possibili sono probabili. Vale tuttavia una vecchia sentenza del filosofo sulla rivoluzione francese. Sentenza secondo la quale il 1793 non cancellò il 1789. Il terrore non annullò il valore della libertà  proclamata dalla Convenzione.
Il primo voto libero, annunciante un contrastato avvento della democrazia, è espresso in un paese per molti aspetti privilegiato, può essere quindi azzardato trarre una lezione valida anche per paesi con ben altri connotati sociali. La Tunisia ha classi medie con un alto grado di educazione. L’emancipazione della donna è avanzata, e senza situazioni equivalenti nel mondo arabo, grazie a quel despota illuminato che fu Habib Burghiba, fondatore della Repubblica alla fine del protettorato francese. Ma quella tunisina è al tempo stesso una società  in cui i governanti hanno giustificato la repressione, i soprusi e tutti gli espedienti delle dittature, dagli imprigionamenti senza limite e senza processo, alla tortura e spesso gli assassinii, con la necessità  di contenere l’islamismo. E per questo, Zine al Abidine Ben Ali, il rais fuggito nell’Arabia Saudita, cosi come tanti suoi colleghi in altre capitali arabe, sono stati prediletti e beneficiati dai governi occidentali. A spezzare quel cinico, non certo nobile opportunismo sono stati i giovani ribelli di avenue Burghiba a Tunisi (o di piazza Tahrir al Cairo), richiamandosi ai semplici, elementari ideali di libertà , e infischiandosene del fatto che gli islamisti, assenti dall’insurrezione, ne avrebbero approfittato. I dirigenti democratici occidentali sono allora diventati i paladini della “primavera araba”. È inevitabile definire un’operazione di recupero, o un atto di contrizione, l’intervento occidentale in favore dei ribelli libici.
Gli islamisti sono stati colti di sorpresa dalla rivoluzione, animata da antichi principi e favorita dalle nuove tecniche di comunicazione, da Facebook a Twitter, ma si sono molto presto associati. Si sono subito infiltrati. E grazie al prestigio dovuto agli anni di prigione scontati dai loro militanti, ed anche alla loro organizzazione, di gran lunga superiore a quella delle altre forze politiche emergenti, essi hanno guadagnato ampi consensi nella popolazione digiuna di politica, in particolare in quella rurale. Il risultato è che il partito Nahda (Rinascita), del leader islamista Rashid Gannouchi, matematico di professione, è dato come il favorito. Non avendo precedenti cui riferirsi ed essendoci circa ottanta partiti in gara e il 44 per cento di indecisi, i pronostici sono oscillanti: alcuni attribuiscono a Nahda il 20 per cento delle intenzioni di voto, altri il 25-30. O poco di più. Gannouchi ha detto di sperare in una maggioranza assoluta. Ma sono in pochi a credere che sarà  esaudito.
Rashid Gannouchi ha 70 anni e ne ha trascorsi un certo numero nelle prigioni tunisine, prima di andare in esilio a Londra. La lunga esperienza vissuta nella capitale britannica l’ha convertito alla democrazia. Egli sostiene infatti che il pluralismo politico e le libertà  individuali, compresa quella religiosa, sia in armonia con l’Islam. Sostiene che i diritti delle donne saranno riconosciuti. Né sarà  proibita la vendita di bevande alcoliche in un paese che vive in gran parte di un turismo alimentato dagli occidentali. Piuttosto malandato di salute, Gannouchi esita a lungo prima di rispondere, dando l’impressione di essere ancora incerto, dilaniato tra i tradizionali principi dell’Islam politico e una forma di autoritarismo laico. Pesa sulla situazione tunisina la vicina esperienza dell’Algeria, che nel 1992 conobbe una disastrosa vittoria elettorale degli islamisti, nella loro versione intransigente. Un successo subito represso dai militari, che non consentirono il decisivo previsto secondo turno. La conseguenza fu una guerra civile che durò anni e fece più di centomila morti.
Benché non manchino perplessità  e diffidenze sui profondi convincimenti del capo di Nahda, il partito islamista si presenta con un programma moderato, che dovrebbe garantire una costituzione non dominata dalla Sharia, la legge coranica. Nahda si ispira spesso al partito turco (religioso laico) di Erdogan, la cui influenza è molto forte in tutto il Magreb, al punto da essere definita una «resurrezione ottomana».
Contro la moderazione degli islamisti di Nahda sono insorti i gruppi salafiti (difensori intrasingenti dei principi originari dell’Islam), i quali non esitano a promuovere azioni violente. Rientravano in questa strategia le manifestazioni contro la proiezione televisiva del film iraniano “Persepolis”, in cui appare una figura umana di Dio, considerata una grave infrazione al principio iconoclasta che ne vieta la rappresentazione. Nahda ha condannato quella intolleranza. I salafiti sono minoritari, sono alcune migliaia, sono super integralisti e provocatori. Tra loro si sarebbero infiltrati i partigiani del vecchio regime, con l’intenzione di compromettere la svolta democratica. I salafiti rapresentano comunque l’incognita delle elezioni. Mettono a dura prova i partiti liberali. Con la fine della dittatura sono nate numerose formazioni politiche, le quali hanno presentato le loro liste di candidati. Ma quelle credibili sono rare. Tra queste il vecchio partito di centro – sinistra Ettakatol (Movimento per il lavoro e le libertà ), rimasto a lungo emarginato; il liberale Partito del progresso; e il partito in cui Afek Tounes raccoglie i tecnocrati delle classi medie colte.


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