Ustica, Lockerbie, i petrodollari tutti i segreti che muoiono col raìs

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Più che un sospiro è un vento di sollievo, quello che si alza oggi dalle Cancellerie europee, da Washington, dai palazzi dei governi, dal potere economico europeo al pensiero che il «cane pazzo» come lo aveva chiamato Reagan non potrà  più parlare. In 42 anni di regno sullo scatolone di sabbia divenuto cisterna di petrolio, sempre al centro dei giochi e degli intrecci tra la parte del “cattivo” bombardato e poi del “figliol prodigo” riaccolto con onori e offerte di ragazze, Muammar Gheddafi ha portato via con sé verità  e segreti che valgono politicamente molto più degli almeno 100 miliardi di dollari che aveva disseminato in banche e quote societarie dall’Italia alla Svizzera alla Francia alla Russia.
La “pazzia” della quale aveva parlato Ronald Reagan prima di lanciargli addosso nel 1986 i suoi bombardieri F111 in un’inutile missione di rappresaglia per l’attentato alla discoteca “La Belle” di Berlino dove morirono tre militari americani, era una follia scaltra, lubrificata dai miliardi che la Banca nazionale della Libia e il suo braccio per gli investimenti, la Lafico, distribuiva con generosa sapienza e totale cinismo. Forte dei più grandi giacimenti di petrolio in Africa, e diciannovesimi nel mondo, integrati da quei giacimenti umani di disperati che affluivano dal continente sulle sponde del Mediterraneo e lui usava per ricattare e minacciare soprattutto l’Italia, Gheddafi ha sempre saputo infilarsi nelle crepe della Guerra Fredda, giocando fra le parti come “non allineato” quando gli faceva comodo, avvicinandosi all’una o all’altra per ottenere quegli armamenti che abbiamo visto dispiegarsi – tutti di fabbricazione sovietica – nelle battaglie contro i ribelli, accumulando migliaia di missili portatili terra-aria che oggi sono scomparsi, entrando negli incubi dei servizi di sicurezza di tutto il mondo. Quegli stessi servizi segreti che hanno sempre usato e temuto i Libici, incerti sul ruolo che lui abbia giocato, se proteggendo e finanziando il terrorismo fondamentalista, o facendo il doppio gioco, quando, dopo l’11 settembre, capì che gli conveniva di più entrare nella “coalizione del Bene” cara a Bush e rinunciare a programmi di armi nucleari.
Ma se le bombe, e i missili, come quei due “Scud” che avrebbe lanciato contro l’isola di Lampedusa sempre nel 1986, prima di capire che sarebbero stati molto più efficaci e terrorizzanti i barconi di migranti per piegare l’Italia e farsi pagare il blocco, erano l’espressione fragorosa e micidiale della sua astuzia, il danaro divenne la sua arma letale. Da quando, nel 1976, la Libia acquistò quasi il 10 per cento della proprietà  Fiat, cercando di imporre il licenziamento del direttore della Stampa Arrigo Levi, dollari e missili, bombe e investimenti – spesso un eufemismo per non parlare di corruzione – sono andati a braccetto. E i misteri, quelli che ha portato con sé nel linciaggio finale immortalato dai videotelefonini, sono cresciuti.
Nella sua corte del “Bunga Bunga” – l’espressione resa internazionalmente celebre da Silvio Berlusconi avrebbe la propria origine proprio da Gheddafi – la vita privata del Colonnello, che nessuna intercettazione potrà  mai rivelare, si compiaceva di corpose amazzoni di guardia, di feste sicuramente eleganti, di bizzarre vicende come le accuse a quattro infermiere bulgare accusate di avere deliberatamente diffuso il virus dell’Aids, l’Hiv, in Libia. «Era un cane ed è giusto che sia morto come un cane» ha detto una di loro, Valya Chervenyashka, ieri. «Sono felice».
Meno felici saranno probabilmente coloro che da decenni vorrebbero conoscere la verità  sul DC9 dell’Italia caduto nelle acque di Ustica o gli inglesi che cercano di scoprire perché Toni Blair fosse diventato improvvisamente grande amico del Colonnello, ospite di suoi voli privati, visitatore frequente in Libia per grandi affari. O i giornali che vorrebbero sapere di più sulle strette relazioni fra la polizia segreta libica e l’intelligence britannica, come poi con la Cia che inviava anche i Tripoli i prigionieri scomodi da Guantanamo per essere torturati, rapporti scoperti in casse di documenti su camion in viaggio nel deserto.
Le impronte digitali del Colonnello, del “re dei re”, del lucidissimo pazzo, sono nella grande banche italiane, come Unicredit, in società  sportive come la Juventus, a conferma di un antico feeling fra la Fiat e la Lafico libico, nella oscura e ridicola odissea del figlio calciatore, sballottato fra tre società  italiane, a partire dal Perugia di Gaucci, e rimasto celebre, oltre che per la sua totale inettitudine sportiva, per gli hotel di lusso che riservava per se stesso e la propria corte. Soldi suoi erano – e sono – in Finmeccanica come furono dentro i forzieri elettorali del pio Jimmy Carter, il religiosissimo presidente Usa eletto nel 1976, il cui fratello Billy, formidabile consumatore di birra, era stato addirittura assunto come lobbista per Tripoli.
Nessuno rimpiangerà  Gheddafi morto, soprattutto non coloro che gli leccarono le mani da vivo. La pietà  pelosa che ha accompagnato le scene ripugnanti del massacro finale nasconde troppe code di paglia. I soli che possono davvero rammaricarsi per il silenzio della tomba che lo attende sono uomini e donne ormai anziani, che persero figli e nipoti sul volo Pan Am fatto esplodere per ordine di Tripoli. «Avrei preferito vederlo alla sbarra in processo, poterlo guardare negli occhi e chiedergli che cosa gli avesse fatto la mia Helga» dice oggi il reverendo scozzese John Mosey che perse la figlia su quell’aereo. Ma anche per lui e per il suo dolore, quegli occhi si sono chiusi sulla verità .


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