Come evitare il suicidio dell’Europa

by Sergio Segio | 1 Novembre 2011 7:22

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La Grecia non è responsabile della crisi europea. Se l’euro fosse ristretto alla Germania e i suoi satelliti la crisi sarebbe potuta scoppiare in Belgio, il cui rapporto debito pubblico/Pil è al 100%. La variabile chiave non è il debito in rapporto al Pil, o in assoluto, ma quanto la banca centrale si rifiuta di rifinanziare. L’ideologia secondo cui le banche centrali dell’Unione Europea dovrebbero acquistare titoli privati, persino tossici, ma non titoli di stato, è stata incrinata, ma troppo timidamente.
La Bce ha aderito a fondi di stabilizzazione, ha ampliato la durata delle concessioni di liquidità , ha esteso la gamma dei titoli che accetta, rifinanzia i titoli di stato sui mercati secondari. Si dovrebbe però garantire stabilmente la liquidità  del mercato dei titoli pubblici: anche solo sui mercati secondari, ma con un intervento annunciato, credibile e continuo.
Il default non dovrebbe essere un problema. Parte della sinistra ne pare convinta e propugna, a partire dalla Grecia, il diritto al default. Qualcuno, anzi, suggerisce di uscire dall’euro per guadagnare competitività . Bisognerebbe chiedersi cosa succederebbe al sistema bancario se ciò che si desidera si verificasse. Un default dichiarato lo farebbe crollare. In Grecia, le banche hanno sostenuto il debito pubblico, rifinanziandosi con la Bce: meccanismo indiretto ma efficace, disegnato perversamente. Con il default il governo si rifiuterebbe di pagare le proprie banche, dovendo tornare a chiedergli prestiti. Per le banche svanirebbe il valore dei titoli di stato che detengono, rendendole insolventi. L’uscita dall’euro aggraverebbe le cose, attivando una fuga dei depositi in euro, mentre il valore delle passività  nella nuova valuta schizzerebbe verso l’alto. Dietro la parola d’ordine del diritto all’insolvenza stanno ragioni forti: resistere alle politiche di austerità ; contestare l’illegittimità  di parte della spesa pubblica, e le condizioni imposte dalla finanza per finanziarla. La campagna per un audit sul debito europeo è giusta. Ma l’idea che l’insolvenza sia la bacchetta magica è fallace.
Vladimiro Giacché sul Fatto quotidiano ha ricordato due cose. Al debito pubblico corrisponde ricchezza privata, detenuta da investitori, banche, compagnie assicurative, fondi italiani, per circa il 56%: lavoratori e ceto medio verrebbero colpiti duramente. Inoltre, praticare un default selettivo è di difficile praticabilità , potendosi selezionare le passività  di cui negare il pagamento, non i creditori. L’attesa di un default dei paesi più in difficoltà  e di una implosione dell’intera area rendono operante una tenaglia ben descritta da Pitagora (sul manifesto del 13 ottobre). Sul piano globale: i fondi fuggono dall’euro verso il dollaro, con gli Stati Uniti che evitano per adesso la discesa nel baratro. Dentro l’area dell’euro: si fugge dai titoli di stato della periferia verso quelli degli stati forti. Il depauperamento di famiglie e imprese aggraverebbe la deflazione da debiti nelle aree in difficoltà , portando a una contrazione della domanda (interna) e lasciando l’onere del traino sulle spalle di una (ipotetica) domanda estera.
A seguito della paralisi del sistema bancario, dell’esplosione del debito verso l’estero, dell’esclusione dal credito internazionale e del razionamento di quello interno, default più svalutazione aumenterebbe il peso del riaggiustamento sul potere d’acquisto dei lavoratori. È vero che nel caso italiano (secondo esportatore di manufatti in Europa) un balzo verso l’alto della competitività  non è una chimera. Il recupero dei profitti non sarebbe però necessariamente legato a un miglioramento tecnico-organizzativo, e seguirebbe (in un paese dipendente dall’estero per materie prime e alta tecnologia) un forte aumento dei prezzi delle importazioni.
La crisi va battuta fermando l’effetto domino e aprendo una speranza per il futuro: vale a dire affrontando contemporaneamente crisi finanziaria e crisi reale. Dal lato finanziario occorre riscadenzare i pagamenti e abbattere i costi del debito. I governi colpiti da tassi d’interesse usurari sui titoli a lunga possono abbassarli con quella che è nota come operation twist. Emettono un largo ammontare di propri effetti a breve scadenza, acquistati dalle banche attratte da un interesse maggiore di quello sui loro depositi presso la banca centrale. Il governo impiega la moneta raccolta per acquistare le proprie obbligazioni a lunga nel mercato secondario. Il loro prezzo di mercato crescerebbe, abbattendo il tasso effettivo d’interesse. Le banche potrebbero così non vendere i propri titoli di stato in perdita, al vecchio prezzo di mercato. La manovra consente al governo di vendere titoli a lunga a rendimenti effettivi più bassi di quelli attuali, finanziando in questo modo le proprie operazioni correnti e restituendo l’indebitamento a breve.
Solo il rilancio dell’economia reale può portare a un pareggio del bilancio pubblico, come pretende la Bce. Quest’ultimo è un obiettivo sensato esclusivamente per la spesa corrente e in riferimento al reddito di pieno impiego. Oggi ci vogliono investimenti pubblici per combattere disoccupazione e precariato. Tutto ciò richiede disavanzi primari dello stato: un accrescimento del rapporto debito pubblico/Pil, riassorbito tramite un aumento del denominatore. Disavanzi “buoni” (A. Parguez sul manifesto de 2 ottobre), produttivi non solo di un più elevato livello di domanda, reddito e occupazione, ma anche di una migliore composizione della produzione. Il vero problema è la deflazione da debiti, lo sgonfiamento maligno (perché ricade sull’economia reale) dei bilanci. Il governo deve fornire asset solidi alle banche: prendere a prestito di più, ma per coprire spese che contribuiscono allo sviluppo reale dell’economia, a valori d’uso per la società .
Dal lato delle entrate, l’equilibrio di bilancio va perseguito aumentando l’imposizione fiscale sui ceti più abbienti e sulla loro ricchezza: una maggiore progressività  del prelievo e forme di patrimoniale, così come più efficaci lotte all’evasione, sono ineludibili. Dal lato delle spese, il settore privato non è trainante nella reflazione delle economie. La spesa dei governi che si rivolge all’economia reale, al netto degli interessi, sul debito, deve essere aumentata (altrimenti la base imponibile verrebbe falcidiata, e il rapporto debito/Pil crescerebbe).
Gli stati possono aumentare i salari nel pubblico impiego, accrescere il salario minimo e introdurre misure di sostegno al reddito. Con la ripresa bisognerebbe favorire un aumento più generalizzato dei salari. Le politiche di austerità  vanificano il prodotto interno lordo prima ancora che si generino i desiderati avanzi di bilanci per pagare il debito: per questo va posto esplicitamente come obiettivo che i disavanzi fiscali primari siano mantenuti sino a che la crescita del Pil nominale non riduca la quota del debito.
Le misure sul salario/reddito e sui disavanzi primari hanno lo scopo di far emergere, in condizioni socialmente accettabili, quel processo inflazionistico esteso a tutta l’Europa che potrebbe rendere l’uscita dal debito un processo relativamente veloce e indolore. Non sarebbe così se i disavanzi primari fossero concentrati soltanto su quei paesi che stanno sperimentando una sostanziale deflazione dei prezzi (al netto dell’eventuale spinta inflazionistica proveniente da materie prime, tariffe, trasporti, etc.), mantenendo per il resto l’obiettivo di soppressione dell’aumento dei prezzi. La Bce deve mutare esplicitamente indirizzo, assumendo l’obiettivo di mantenere liquido il mercato dei titoli di stato per accompagnare i necessari disavanzi pubblici primari.
Qui si apre il tema più complesso. La stabilizzazione finanziaria deve andare insieme alla reflazione della domanda, ma quest’ultima deve tradursi in una riqualificazione della spesa pubblica, che muti i caratteri dell’offerta e ridefinisca, rinforzandolo, il welfare. Non ci si può limitare a incrementi nominali o ad una crescita quantitativa. La crisi è capitalistica, ed è appena a metà  del suo decorso naturale: fatto di svalorizzazione e centralizzazione del capitale, come dell’apertura di nuovi orizzonti alla valorizzazione grazie a nuove recinzioni dei beni comuni. Porta con sé un violento attacco contro il lavoro, pubblico e privato, domestico e migrante, nella produzione e nella riproduzione. La disoccupazione di massa del lavoro, ormai tutto precario, è la nuova normalità .
È urgente definire un programma minimo, che risponda all’esigenza di una diversa prosperità  e di una difesa dall’insicurezza pervasiva (la capital asset inflation ha maturato consenso nel ceto medio e nel mondo del lavoro perché forniva una illusoria difesa). Un programma minimo il cui centro siano la socializzazione degli investimenti, le banche come public utilities, lo Stato garante diretto di buona e piena occupazione, il controllo dei capitali.
* Jan Toporowski è direttore dell’Economics department at the school of oriental and african studies, University of London

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