Cronaca di un fallimento annunciato

by Sergio Segio | 23 Novembre 2011 7:49

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Fra poco più di undici mesi gli statunitensi si recheranno alle urne per concedere a Barack Obama un secondo mandato o eleggere un nuovo presidente repubblicano. Questa prospettiva determina tutte le decisioni (o non decisioni) prese a Washington. Così è avvenuto col cosiddetto «Supercomitato» di 12 membri (6 repubblicani e 6 democratici) che avrebbe dovuto decidere le misure per ridurre il deficit di 1.200 miliardi di dollari. Lunedì questo comitato ha annunciato di non aver raggiunto nessun accordo.
In realtà  si trattava di un fallimento annunciato, visto che il comitato non era stato nemmeno in grado di riunirsi spesso e che era nato da un altro fallimento, quello di luglio, quando il presidente e il Congresso non erano riusciti a trovare un compromesso nelle trattative per innalzare la soglia del debito pubblico Usa oltre il livello dei 14 miliardi di dollari. Anche allora Barack Obama aveva proposto un «grande scambio» con tagli alle spese previdenziali (Medicare, Medicaid e Social Security) per 650 miliardi di dollari, tagli alla difesa e alle spese interne per 1.000 miliardi di dollari, in cambio di più tasse per i più ricchi che avrebbero apportato 1.200 miliardi di dollari.
Questo curioso istituto pomposamente chiamato «Supercomitato», era stato varato solo per salvare il Congresso da se stesso, ma in realtà  ognuno dei due partiti stava giocando a scaricabarile: il vero obiettivo di ognuna delle due parti era di addossare all’avversario la responsabilità  del fallimento. Infatti, ancor prima che il Comitato desse l’annuncio, già  Barack Obama dava la colpa ai repubblicani e rilanciava il suo piano per l’occupazione (anche quel piano era stato proposto a settembre senza nessuna speranza che venisse approvato, ma solo per mostrare che i repubblicani sabotano tutto). A loro volta, i candidati repubblicani alle presidenziali del prossimo anno hanno tutti sparato a zero su Obama, a cominciare dal mormone Mitt Romney e dal governatore del Texas Rick Perry. Ambedue si sono concentrati sulla difesa, classico ritornello repubblicano per cui i democratici costituirebbero un rischio per la sicurezza nazionale degli Stati uniti.
Che c’entra la difesa? Il fatto è che a luglio era stato deciso che, senza un accordo, si sarebbe proceduto a tagli automatici per 1.200 miliardi di dollari, tagli che a questo punto colpirebbero in primo luogo la difesa, poiché quelli già  decisi recidevano innanzitutto le voci di spesa interne. E infatti il ministro della Difesa, il democratico Leon Panetta (ex capo dello staff della Casa bianca di Clinton e da poco ex direttore della Cia) ha subito detto che è l’oltranzismo repubblicano a mettere a rischio la sicurezza degli Usa. Mentre di parere opposto sono Romney e Perry.
In realtà , poiché gli Usa spendono in difesa quanto tutto il resto del mondo messo insieme, un taglio alle spese militari non renderebbe molto più insicuri gli statunitensi. Ma anche se così fosse, il pericolo non è comunque immediato perché i tagli automatici avverranno solo a partire dal 2013 e quindi senatori e deputati avranno tutto l’anno prossimo per cercare di mettere una pezza ai propri disastri.
Tutto questo tira e molla ha un inequivocabile sapore di déja vu: già  nel 1994, nelle elezioni di metà  mandato, l’allora presidente Bill Clinton aveva subito una batosta durissima da parte dei «nuovi repubblicani» parenti assai stretti degli attuali esponenti del Tea Party, integralisti del libero mercato, che avevano conquistato la maggioranza alla Camera, come è riaccaduto l’autunno scorso. Anche nel 1995 vi fu un braccio di ferro sul deficit: allora la disputa verteva sulla legge finanziaria. Clinton si spostò a destra ed offrì compromessi su compromessi, tutti rifiutati dai repubblicani, finché il presidente annunciò che, in assenza di un accordo, era «costretto a chiudere lo stato», cioè a mandare a casa tutto il personale pubblico non addetto ai servizi vitali. La maggioranza degli statunitensi ritenne i repubblicani colpevoli di questa paralisi dello stato: e fu questa la mossa vincente che permise a Clinton di essere rieletto facilmente nel 1996 nonostante avesse subito una dura batosta due anni prima. È chiaro che Obama sta tentando di rigiocare la stessa partita. Con due grandi differenze però. La prima è che nel 1994-96 la congiuntura economica era favorevole e la crescita forte, mentre ora la disoccupazione dilaga. La seconda è che oggi questi fallimenti rinforzano l’antipolitica che soggiace sia al Tea Party, sia a Occupy Wall Street, ma che in definitiva favorisce la destra repubblicana. Quindi Obama gioca a uno contro due. Solo la colpa repubblicana gli è favorevole, mentre ai repubblicani giova sia la colpa democratica, sia il biasimo di tutta la classe politica.

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