Delta del Niger, la morbosità  del petrolio

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Eppure nel Delta la popolazione locale vive da decenni in condizioni di estrema indigenza, quotidianamente alla prese con il degrado socio-ambientale che l’attività  estrattiva porta con sé.
Lo scorso agosto un rapporto dell’agenzia ambientale delle Nazioni Unite, l’Unep (United Nations Environmental Programme) ha certificato che per il solo spicchio di Delta occupato dal popolo Ogoni serviranno 30 anni di bonifiche per riparare gli immensi danni causati dalla Shell. Il conto iniziale presentato alla oil corporation anglo-olandese ammonta a oltre un miliardo di dollari, ma le organizzazioni della società  civile nigeriana parlano dell’esigenza di uno stanziamento di fondi per decine di miliardi per pulire l’intero Delta. Anche Amnesty International, con una sua pubblicazione lanciata la settimana scorsa, ha sottolineato l’esigenza di intervenire al più presto in Ogoniland, citando casi eclatanti come quello relativo alla comunità  di Nisisioken Ogale, dove il livello del benzene, elemento altamente cancerogeno, eccede di 900 volte il limite previsto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità .
Se la Shell, infatti, è da anni sotto l’occhio dei riflettori in quanto compagnia più attiva nel Paese e legata a episodi molto controversi come la condanna a morte del poeta e attivista Ken Saro-Wiwa nel 1995 da parte della giunta militare presieduta da Sani Abacha, anche altre imprese petrolifere sono oggetto delle critiche e delle proteste delle comunità  del Delta. Nella regione opera dagli anni Sessanta anche l’italiana Eni, tramite la sua sussidiaria locale. Una recente missione sul campo condotta in collaborazione con i nigeriani di Environmental Rights Action dall’italiana Crbm e da altre Ong internazionali ha potuto riscontrare come anche nelle località  dove è attiva l’Agip la popolazione locale sia molto scontenta, per usare un eufemismo. I problemi sono pressoché gli stessi ovunque, come evidenziano un documentario, a firma Luca Tommasini, e una pubblicazione prodotti da Crbm e disponibili sul sito www.crbm.org. Oltre alla militarizzazione del territorio e ai copiosi sversamenti di greggio, dovuti spesso alle cattive condizioni delle tubature, c’è l’annosa questione del gas flaring, fonte primaria di inquinamento e di piogge acide.
In Nigeria bruciare in torcia il gas connesso al processo d’estrazione del greggio è illegale da decenni. A stabilirlo è una legge del 1979 e, in via giudiziaria, una sentenza del 2005 dell’Alta Corte Federale. Tutte le multinazionali del petrolio, nessuna esclusa, non hanno rispettato questi provvedimenti, a dispetto delle loro promesse. Nel frattempo sono oltre cento le torri che sprigionano in maniera perenne lingue di fuoco che sputano diossina, benzene, sulfuri e particolati vari. Tutti agenti cancerogeni, la cui emissione nell’aria va di pari passo con l’aumento nella regione del Delta del Niger di un ampio spettro di malattie respiratorie e forme tumorali e dell’inquinamento della terra e delle falde acquifere.
Durante l’Assemblea degli azionisti dello scorso maggio, l’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni aveva fatto riferimento all’impegno di ridurre il gas flaring nella località  di Kwale, dove l’Eni ha numerosi impianti, mentre riguardo agli impianti di Ebocha l’azienda sul proprio sito web ha assicurato che il fenomeno non è più in atto. Le Ong internazionali, invece, hanno potuto constatare che in entrambi i siti diverse torri continuano a sputare fuoco per l’intero arco della giornata. La popolazione locale si augura che tutto ciò possa cessare al più presto, in modo che si fermi anche il degrado ambientale.


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