E anche i Bund fanno flop

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Eravate convinti che i Bund tedeschi fossero il titolo di stato più appetibile del mondo? Sbagliato. Gli investitori di grandi dimensioni (gli speculatori e le banche, insomma) hanno risposto ieri mattina che non sono più così interessanti. Il ministero del tesoro tedesco ha cercato di piazzare 6 miliardi di Bund con scadenza a 10 anni. Di solito la domanda superava di due o tre volte l’offerta. Stavolta invece è andata via solo una parte. Per l’esattezza 3,64 miliardi, ma solo perché la Bundesbank – con una mossa che in Italia è vietata alla Banca d’Italia – ne ha presi oltre due. Altrimenti la disfatta sarebbe stata epocale. Naturalmente il rendimento è dovuto salire ben oltre il misero 1,98% promesso.
L’altra notizia che ha terremotato i mercati ieri è arrivata da Eurostat. Nel mese di settembre gli ordinativi all’industria, nell’eurozona, sono calati del 6,4% rispetto al mese precedente. Significa che nei prossimi mesi gli stabilimenti avranno meno lavoro, aggravando una tendenza recessiva ormai manifesta. L’Italia registra la peggiore prestazione in assoluto, con un calo che arriva al 9,2%. Anche togliendo dal computo i settori a più alta volatilità  (navale, aerospaziale, ferroviario, che lavorano su tempi lunghi) la situazione migliora di poco: -4,3 nell’eurozona, -2,3 dell’Unione dei 27 paesi.
Importante lo squilibrio che si è venuto a creare. Gli ordini crollano nei paesi più importanti (Italia, Germania, Francia, Spagna), mentre aumentano in quelli dell’Est (Lettonia, Polonia, Repubblica Ceca). A segnalare, certo, una delocalizzazione ormai radicale che ha ridisegnato la «divisione continentale del lavoro» e delle produzioni, ma anche l’incapacità  di «compensare» la caduta nei paesi più grandi.
Soprattutto, questi dati mostrano che la gerarchia industriale imposta negli ultimi anni dalla Germania – che ha trasformato in «contoterzisti» molti produttori dei paesi confinanti o quasi, comincia ora a incontrare seri limiti. Le possibilità  di esportare verso la Cina grandi macchinari (centrali a carbone, intere linee produttive, ecc) si scontra in questo momento con il rallentamento della crescita del celeste Impero, causata proprio… dalla riduzione delle importazioni europee e statunitensi. La riduzione del potere d’acquisto del lavoro dipendente – che accomuna sia gli yankee che gli europei – ha insomma aiutato per un po’ di anni i singoli imprenditori a fare profitti più facilmente; ma ad un certo punto questa ridotta capacità  di consumo si ritorce contro il funzionamento del sistema globale.
Proprio ieri l’Hong Kong and Shanghai banking corporation (Hsbc) ha reso noto che l’attività  dell’industria cinese si è ulteriormente contratta in novembre. Il Purchasing manager index (Pmi) chiuderà  novembre a livello 48, tre punti sotto i 51 fatti registrare in ottobre; ma sotto anche la soglia dei 50, che separa tradizionalmente le fasi espansive da quelle recessive.
Questo insieme di dati, complici anche le tensioni permanenti sui titoli di stato europei, hanno provocato sua una discesa seria dei valori azionari che ulteriori terremoti sul mercato dei titoli pubblici. Le borse europee hanno chiuso tutte molto male (Milano -2,59%, Francoforte -1,44, Parigi -1,68), evidenziando che ora è anche l’economia reale a preoccupare (oltre alle banche, sotto stress per la scorpacciata di titoli di stato e obbligate ad aumentare il capitale posto a garanzia degli impieghi).
Ma non è andata meglio per lo spread, nonostante i problemi mostrati dai titoli-termometro: i Bund tedeschi. Il differenziale tra i Btp decennali italiani e gli omologhi germanici è salito di nuovo sopra i 500 punti base, portando il rendimento al di là  della pericolosissima «soglia di non ritorno» fissata a cavallo del 7%. La Bce è ricorsa ancora una volta a massicci acquisti di Btp e Bonos spagnoli, per impedire una caduta ben più grave. In chiusura la quotazione era «scesa», si fa per dire, a 497, mentre quello spagnolo si fermava a 468.
Ma altrettanto è avvenuto con i titoli a scadenza breve – i Btp a due anni, considerati meno rischiosi – a dimostrazione che il «rischio paese» resta alto nonostante Mario Monti (uomo a tutto tondo «dei mercati») sia ormai in sella. Qui lo spread è arrivato a un’inconcepibile 700 punti, mai visti in dodici anni di vita della moneta unica. Se c’è una governance europea, dobbiamo dire, i mercati non se ne sono accorti.


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