Ecco il ponte «tappo» che ha sommerso Genova

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GENOVA — Le fatalità  hanno sempre nome e cognome. C’è poco da tirare in ballo l’ineluttabile, perché poi va sempre a finire che piove, e una volta finiti di piangere i morti dell’alluvione, si torna a una storia molto italiana. Alla nostra incommensurabile capacità  di farci male da soli.
E così, scendendo dal rio Fereggiano, si arriva al Bisagno, il torrente che divide il Levante di Genova dal Ponente. Lo vedi, e poi non lo vedi più. Entra nei quattro archi scavati sotto alla massicciata della stazione Brignole e scompare fino alla foce.
L’imbuto è sempre quello. Nell’ottobre 1970 il Bisagno uscì dagli argini al ponte ferroviario, strozzato da un ingresso che limitava la sua portata a 500 metri cubi al secondo, contro i 1.200 trascinati dalla piena. Quel che non ci stava divenne una valanga d’acqua che si portò via la vita di 24 persone e sommerse Genova. Venerdì scorso quella massicciata ha respinto l’acqua di troppo, alzando il livello del torrente al limite degli argini, e creando un muro liquido che ha impedito lo sfogo al rio Fereggiano, che si getta nel Bisagno appena un chilometro prima del ponte. Ha fatto da tappo, gonfiando l’affluente, che ha rotto gli argini più in alto, trasformando la palazzina al civico 2B in un pozzo che ha inghiottito cinque persone.
È andata così, dice il professore Alfonso Bellini, il geologo incaricato dalla Procura di cercare le cause del nuovo disastro. Non c’è voluto molto per arrivarci, giusto un paio di sopralluoghi, il problema che è sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vedere. «C’è una eterna spada di Damocle che pende sulle nostre teste» chiosa l’esperto.
L’inchiesta dei magistrati genovesi guarda a valle, verso l’interratura del Bisagno, per ricostruire omissioni ed eventuali responsabilità  sulla mancata realizzazione di un’opera che 41 anni fa venne giudicata «prioritaria» per la sicurezza del territorio nazionale. Il governo dell’epoca, presidente del Consiglio Emilio Colombo, chiede a una commissione guidata dal ministro senza portafoglio per le Regioni Eugenio Gatto di stilare un elenco delle cinque più grandi emergenze nazionali. Al primo posto c’è la messa in sicurezza dell’Arno, esondato quattro anni prima. Al secondo c’è il Bisagno. L’interratura del torrente viene giudicata «insufficiente». È stata progettata nel 1928 e realizzata in dieci anni dal governo fascista, che sull’alveo originario, largo 90 metri, costruisce una strada che nel 1945 diventa l’attuale viale delle Brigate partigiane, e lo circonda di palazzi, stringendo lo spazio del torrente ormai sotterraneo di una trentina di metri.
Nel 1971 Colombo dà  alle amministrazioni locali il compito di risolvere il problema. Con calma, che non c’è fretta: passano solo 18 anni, consumati in sfinenti dibattiti. C’è chi vuole deviare il torrente in cima, chi si accontenta di una via di fuga laterale per l’acqua, chi vuole grattare sul fondo, e chi invece si accontenterebbe di allargare la copertura esistente e portarla almeno a 800 metri cubi. Per ingannare il tempo e alleggerire il Bisagno, nel 1989 viene deciso di fare lo scolmatore del rio Fereggiano, che porta ancora il nome di «progetto pilota». I lavori si interrompono con la Tangentopoli genovese. Cade la giunta, il Comune paga 9 miliardi di lire in penali alle ditte appaltatrici. Resta un canale abbandonato lungo 900 metri, a futura memoria.
Nel 1998 tutti d’accordo. Allargamento più scavo del fondo, si parte cominciando dal mare e all’indietro verso la massicciata, dividendo l’opera in tre parti. Con il primo lotto tutto bene. Un po’ meno con il secondo, che doveva essere completato nel 2009, ma è ancora un cantiere aperto. La Pamoter, unica azienda titolare, subisce una serie di rivolgimenti societari, i lavori vengono divisi in subappalti, due ditte subentranti falliscono. E i costi si impennano, passano da 50 a 70 milioni di euro, con la Guardia di Finanza che indaga sulle cause del salasso, mentre un’altra inchiesta viene aperta sulla girandola di società .
L’ultimo capitolo della saga porta una firma destinata da lì a poco ad avere una certa notorietà . Il progetto esecutivo del terzo lotto, quello che arriva fino alla massicciata, mestamente ferma a 500 metri cubi di portata, viene approvato nel giugno 2008 dal Consiglio superiore dei Lavori pubblici presieduto da Angelo Balducci, attuale imputato principe nel processo sulla presunta «cricca». Grandi strette di mano, complimenti a mezzo stampa. Ma c’è un dettaglio. Il costo previsto è di 250 milioni di euro, oggi lievitato a 270. Dal ministero dell’Economia fanno sapere che manca la copertura finanziaria, tanti cari saluti al nuovo alveo. E un benvenuto al liberatorio coro sulla fatalità . Le colpe dell’ultima alluvione, quelle sono come il Bisagno. Le vedi, e poi non le vedi più.


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