Eventi estremi? No, normali Attrezziamoci

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Ed ogni volta si ripetono, con un rituale avvilente, le solite denunce: la mancanza di manutenzione del territorio, la speculazione edilizia, l’abbandono delle zone collinari e montane.
Le alluvioni hanno segnato la storia d’Italia, come di altre parti del mondo, ma negli ultimi decenni si sono intensificate. Dall’Unità  d’Italia al 1946 si sono registrate sei alluvioni disastrose, con centinaia di morti e paesi abbandonati. Dal 1946 al 1970 sono state dieci, altrettante dal 1970 al 1998, cinque dal 1998 al 2088, e ben 14 alluvioni si sono registrate negli ultimi quattro anni. La crescita quantità  dei nubifragi e, soprattutto, della «intensità  delle piogge nell’unità  di tempo» è un fenomeno ormai registrato a livello mondiale. La causa scatenante di questo mutamento climatico è ormai accertata e denunciata da diversi scienziati. James Hansen, famoso climatologo nordamericano, ha scritto un volume, “Tempeste” (ed. Ambiente, 2010), dove spiega come l’aumento della temperatura terrestre – causata dalla crescita esponenziale della CO2 nell’atmosfera – comporti un surriscaldamento delle masse d’acqua oceaniche che produce una maggiore quantità  di energia scatenando gli “eventi estremi”: piogge intense, uragani, tifoni, e lunghi periodi di siccità . In un articolo uscito su Nature (agosto 2010) un gruppo di ricercatori di due Università  statunitensi hanno dimostrato come la frequenza di uragani e tifoni è aumentata del 31% negli ultimi trent’anni. Alle stesse conclusioni sono arrivati alcuni ricercatori dell’Università  di Camberra che hanno riscontrato un aumento della forza dei venti e dell’altezza delle onde negli ultimi venticinque anni.
In breve, gli “eventi estremi” ci sono sempre stati, ma loro intensità  e frequenza sta crescendo a causa dello squilibrio ambientale provocato dalle attività  umane inquinanti. La nostra società  industrializzata non ne vuole prendere atto. È stata costruita sulla prevedibilità , sul potere della tecnologia di comprendere e dominare il divenire, di programmare gli investimenti e la gestione del territorio per trarne il massimo profitto. Rimane muta, spiazzata da questo mutamento qualitativo.
Di contro, è urgente fare i conti con gli eventi estremi se non vogliamo fare solo i becchini che piangono i morti, o gli sciacalli che attendono con ansia il business della ricostruzione. Se ci fosse una seria contabilità  del nostro patrimonio naturale paesaggistico, ambientale, registreremmo una decrescita spaventosa negli ultimi decenni, anche e soprattutto nei periodi in cui il Pil cresceva.
Abbiamo bisogno di mettere in campo un programma di stress test territoriali (ben più necessario dei falsi stress test bancari) per individuare, grazie alle simulazioni che oggi la tecnologia consente, un piano di intervento di risanamento ambientale, canalizzazione delle acque, ripresa dei terrazzamenti, ecc. nelle aree valutate a rischio prioritario. Basterebbe utilizzare i fondi messi a disposizione del fantomatico Ponte sullo Stretto (vi ricordate i 2,5 miliardi della vendita di quote Iri destinate al Ponte?) e stornare i fondi che si vogliono spendere per la Tav in Piemonte per riuscire a fare una manutenzione straordinaria, nelle aree ad alto rischio, ed ordinaria altrove. L’obiezione che nelle aree interne della penisola nessuno vuole più vivere e l’abbandono di queste terre è la prima causa dei disastri ha un suo fondamento. Ma esiste anche un’alternativa sperimentata a Riace e Caulonia in Calabria: offrire agli immigrati, che vengono da aree agricole (etiopi, eritrei, afgani, ecc.) la possibilità  di avere una casa e di lavorare la terra, magari all’interno delle strategie di intervento di uno dei tanti Piani di assetto idrogeologico che sono stati approvati dalle Regioni e sono rimasti lettera morta. Creare delle filiere di responsabilità  territoriale per cui non si possa più giocare allo scaricabarile tra i vari enti preposti alla manutenzione del territorio. Ci vuole un cambio repentino di mentalità , visione del mondo e del nostro futuro. Abbandonare i derivati finanziari al loro destino di carta straccia ed occuparci seriamente del nostro più prezioso bene comune: l’ecosistema.
Alla prossima pioggia intensa e alluvione connessa nessuno dica: non ce l’aspettavamo!


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