I 100 giorni di Humala Avanti con moderazione

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Vocazione latinoamericanista ma senza entrare nell’Alba: un segnale a Washington Lo scandalo del vice presidente Omar Chehade ha pesato ma la sua popolarità  è ancora alta LIMA
A poco più di tre mesi dall’inizio della sua presidenza – il lasso minimo di tempo per poter giudicare il disimpegno di un nuovo governante – Ollanta Humala, il presidente del Perù profondo, autoctono, maggioritario, quello in eterna attesa di inclusione, non ha deluso il suo elettorato. Anzi. Le principali promesse di campagna sono state mantenute.
L’industria mineraria, locomotiva dell’economia peruviana, si è vista aumentare l’imposizione fiscale, ridicolmente bassa sotto i governi precedenti, un po’ troppo permissivi con le multinazionali estrattive. L’aumento del gettito verrà  (o dovrebbe venire) convogliato a programmi sociali. Il salario minimo sta aumentando progressivamente del 25% e arriverà  fra poco a 750 soles, l’equivalente a 200 euro. La Ley de consulta previa, che accorda voce e voto alle comunità  indigene su tutti i progetti, pubblici e privati, che incidono sul loro habitat, è stata approvata e divulgata nella regione andina dal presidente in persona come uno dei primi atti di governo.
La popolarità  del presidente, pur colpita dallo scandalo che ha colpito uno dei suoi vice, è ancora alta, seconda solo a quella della primera dama Nadine Heredia, che ha conquistato il titolo di «twittera più influente del paese» e si muove con disinvoltura nei frequenti viaggi all’estero.
La vocazione latino-americanista di Ollanta, che contrasta con l’allineamento agli interessi statunitensi del suo predecessore Alan Garcà­a, elude una scelta di campo marcata: il Perù si dichiara più interessato a organismi regionali come la Comunità  andina (formata da Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia) piuttosto che a raggruppamenti ideologici come l’Alba, la Alianza bolivariana para los pueblos de nuestra América, che congrega Venezuela, Cuba, Ecuador, Bolivia e Nicaragua. Una mossa questa di tacita distensione nei confronti di Washington, una dichiarazione di lontananza da qualunque «asse del male».
Le cannonate della destra
Ma il moderato Ollanta non ha navigato sempre in acque tranquille in questi tre mesi. Una destra così malmessa da ridursi a candidare, come fosse una Giovanna d’Arco, la figlia del dittatore Alberto Fujimori, in carcere per crimini contro l’umanità , un agglomerato di interessi così privo di scrupoli nei sui trucchi propagandistici da far scappare lo scrittore Mario Vargas Llosa, che saltò la barricata in piena campagna elettorale unendosi a Ollanta, non poteva restarsene con le mani in mano. Dopo essersi assicurati che il timone dell’economia continuerà  sulla rotta grosso modo neo-liberista, i deputati dell’opposizione si sono dedicati essenzialmente a cannoneggiare il governo, nella speranza di far cadere qualche testa.
Hanno cominciato con la prima afro-peruviana assurta al rango di ministro, il ministro della cultura Susana Baca, cantante famosa, accusandola di passare più tempo in concerto che al ministero. La Baca ha così dovuto cancellare in fretta e furia una serie di tournée programmate tempo prima ma ormai incompatibili con i suoi impegni di governo.
Poi è stata la volta di Aida Garcà­a Naranjo, ministro de la mujer y desarrollo social (sviluppo sociale), femminista e socialista militante: quando, il 20 settembre scorso, tre bambini sono morti dopo aver ingerito alimenti distribuiti dal Pronaa (Programa nacional de asistencia alimentaria), che dipende dal suo ministero, i parlamentari di Fuerza 2011, la coalizione di Keiko Fujimori, le si sono avventati al collo, chiedendone la rinuncia, come se fosse stata lei la responsabile diretta dell’incidente. Anche se poi, una mozione contro il ministro presentata in Congresso dai fujimoristi non è passata.
Le cannonate successive hanno preso di mira i due vice-presidenti. L’opposizione – questa volta l’Apra di Garcà­a – ha cercato di montare uno scandalo intorno alla prima vice-presidente Marisol Espinoza, accusandola di aver fatto assegnare un tomografo a un ospedale per puro favoritismo, sottraendolo al destinatario originale. Marisol Espinoza, oltre a sventare la manovra diffamatoria dimostrando che il cambio di assegnazione del tomografo era avvenuto prima che lei entrasse in carica, ha contrattaccato rivelando l’esistenza di una «mafia aprista» all’interno della sanità  che prende in affitto attrezzature mediche a tariffe astronomiche, perfino superiori al prezzo di mercato dei macchinari.
Un viscido Chehadegate
L’ultimo colpo dell’opposizione però – questa volta contro il secondo vice-presidente Omar Chehade – ha avuto molta più risonanza, anche perché poggia su basi ben più solide, la sua ricaduta politica è ancora in corso e sta costando quasi dieci punti di popolarità  a Ollanta, a ottobre al 66%. In un ristorante gourmet di Miraflores, Las brujas de Cachiche, Chehade si è riunito con tre generali della polizia per convincerli a sgomberare con la forza delle armi – del tutto illegalmente, in spregio a una sentenza giudiziaria – uno zuccherificio dei magnati Wong occupato dagli operai, che ne hanno ottenuto la gestione. Il generale Guillermo Arteta, che si è rifiutato e ha denunciato l’accaduto, è stato smentito dagli altri due generali, che si erano dichiarati favorevoli all’operazione, ma la sua testimonianza è confermata da un altro invitato a quella riunione e la sua versione dei fatti è la più attendibile.
Invitato dal presidente Humala a «farsi da parte», cioè a rinunciare alla carica, mentre è in corso un’inchiesta parlamentare sull’episodio, Omar Chehade ha ubbidito solo parzialmente, dichiarandosi auto-sospeso dalle sue funzioni, in realtà  poco più che simboliche, ma restando aggrappato alla sua investitura, garanzia di status e immunità . E continua a proclamarsi innocente contro ogni evidenza. Intanto, la commissione di etica del Congresso lo ha sospeso temporaneamente dall’attività  parlamentare.
Oltre a danneggiare gravemente l’immagine di un governo che ha fatto della lotta alla corruzione la sua bandiera, lo scandalo del vice-presidente ha dato un colpo letale alla nascente commissione parlamentare che avrebbe dovuto indagare sulle irregolarità  commesse dal governo di Alan Garcà­a. Con l’uscita dalla commissione di Chehade, che ne faceva parte, e la rinuncia del deputato socialista Javier Diez Canseco, che avrebbe dovuto presiederla ma è stato messo fuori gioco da pressioni avversarie e dal fuoco amico, la commissione destinata a mettere in luce tutte le magagne, le ruberie e le illegalità  del precedente governo è stata deviata su un binario morto. La destra revanscista può finalmente vantare una vittoria.
Sviluppo o Madre Terra?
Al di là  della rissosità  di un’oligarchia che non digerisce ancora la sconfitta elettorale e ancor meno l’evoluzione politica del paese, i conflitti più forti e diffusi che attraversano oggi la società  peruviana e la confrontano con un governo che ha promesso inclusione sociale ma anche crescita economica, sono quelli contro l’industria mineraria e la costruzione di centrali idroelettriche. E qui il governo di Ollanta si trova a fare i conti con una bomba a orologeria preesistente a cui è scaduto il tempo.
Ultima generazione nell’estrazione di minerali, le miniere a cielo aperto sono particolarmente devastanti: dinamitano il territorio, riducendolo in polvere, lavano le terre con reagenti chimici e fiumi d’acqua sottratta all’agricoltura e al consumo umano, lasciano terre avvelenate e improduttive, paesaggi lunari inabitabili. Pompano risorse all’estero e qui lasciano morte e distruzione. Si capisce perché le compagnie minerarie siano viste come il diavolo, dalle Ande all’Amazzonia: perché sono il diavolo o chi ne fa le veci. Giovedì 10 novembre, la furia anti-minera si è scatenata nella città  di Andahuaylas. La popolazione esige che si blocchino tutte le concessioni minerarie. La polizia ha attaccato i manifestanti, 35 feriti, ingenti danni materiali, un ufficio governativo in fiamme.
Gli Ashà¡ninkas della Selva centrale rifiutano l’accordo energetico fra Perù e Brasile, che prevede l’inondazione delle loro terre per costruire due centrali idroelettriche sui fiumi Ene e Tambo. La loro lotta si ispira a quella degli Aymara dell’altopiano, che sono riusciti a far sospendere il progetto di una mega-centrale sull’Inambari (e a quella recente degli indigeni boliviani che hanno obbligato Evo Morales a cancellare il progetto di una strada che passava per le loro terre native). La miccia accesa però continua a correre.


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