Iran, ultima sfida all’Occidente

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Sembrano due pianeti distanti anni luce l’uno dall’altro l’Iran di Ahmadinejad che non intende «arretrare neppure di un millimetro» dal suo programma nucleare malgrado il rapporto dell’Aiea che, in base a “indizi convergenti”, conferma l’intenzione della Repubblica islamica di voler costruire ordigni nucleari, e l’Iran della gente comune, quella maggioranza smarrita e silenziosa che fatica a sbarcare il lunario.
Il primo vanta di possedere strumenti bellici in grado di «distruggere Israele» un istante dopo l’eventuale attacco contro le sue installazioni nucleari (lo ha affermato ieri il capo di stato maggiore delle forze armate iraniane, Massud Jazayeri) e accusa il direttore dell’Aiea, Yukiya Amano, di essere un «servo degli americani». Il secondo, il popolo minuto, teme invece l’aggravarsi delle proprie condizioni di vita con l’imposizione di «sanzioni forti e ancora più dure».
A chiedere quelle sanzioni è parte della comunità  internazionale, a cominciare dalla Francia e dall’Inghilterra, mentre l’Italia con il ministro degli Esteri Franco Frattini pretende dall’Iran «un dettagliato riscontro per dissipare le preoccupazioni destate dal rapporto dell’Aiea».
C’è poi la famigerata e minacciosa “opzione militare”, seriamente e insistentemente presa in considerazione dagli israeliani, e non solo da loro: «Non si tratta di una pistola fumante», scriveva ieri il giornale israeliano Haaretz per commentare il rapporto dell’Agenzia dell’Onu che ha il compito di monitorare le attività  atomiche nel mondo, ma di «un missile con la testata nucleare». Dunque, come ha detto ieri Benjamin Netanyahu dopo un lungo e emblematico silenzio: «La comunità  internazionale deve fare in modo che l’Iran cessi di lavorare ad armi nucleari che mettono in pericolo il mondo e il Medi Oriente».
In questo caos tragico che regna nella Repubblica islamica, sono per la maggior parte giovani, ragazzi e ragazze spaventati che in questi giorni di «trambusto di tamburi che annuncia l’imminente guerra» cercano di trovare rifugio nelle pagine dei blog per scambiarsi pareri, per consolarsi e per sfogare la rabbia accumulata in seguito alla brutale repressione che ha soffocato il movimento di protesta per la rielezione di Ahmadinejad. Si firmano come un Ali qualsiasi, un Firuz che può essere ognuno di loro, una Shahla che ha il volto di mille altre Shahla, e il sostantivo più frequente nelle loro lamentele è l’inquietudine.
Sono i blogger la voce narrante dell’Iran che ignora i calcoli del regime, le sue reali possibilità  di sopportare le sanzioni o i blitz militari e ha paura che l’insieme dagli apparati politico-militari del regime, sempre più gradassi e sicuri di sé quando si tratta di regolare i conti con l’Occidente, siano in realtà  degli spavaldi “bluffer” e che alla fine sarà  il popolo a pagare le conseguenze delle loro complicate acrobazie sui piani nucleari del paese.
«In nessuna fase della storia del nostro paese la guerra e l’invasione degli stranieri sono state a vantaggio della nostra gente e non lo saranno neppure questa volta. La guerra non conviene, né a noi iraniani né ad altri», ha scritto quell’Ali qualsiasi sul blog “Libertà  e sviluppo”. Vengono rievocate l’invasione degli arabi che hanno sconfitto l’Impero iraniano, quella dei mongoli che hanno elevato cumuli di cadaveri in ogni angolo del paese; si ricordano le interferenze della Cia che hanno determinato la fine di un governo apprezzato, quello di Mohammad Mossadegh negli anni Cinquanta, e soprattutto non si dimenticano le ferite provocate dagli otto anni di guerra imposta da Saddam Hussein. E quello dei blogger non è un pacifismo di maniera: è il terrore per il ritorno di un passato remoto e recente.
Ma è difficile che la repulsione nei confronti dell’invasore straniero renda accettabile un regime inviso. In un libro che non ha passato l’esame della censura e quindi è stato sintetizzato in un breve articolo sulla rete, l’accademico Rahimi Brugerdi scrive che l’Iran di oggi subisce ogni anno danni paragonabili al 75 per cento di quelli provocati in ciascuno degli anni di guerra con gli iracheni; che il governo di Ahmadinejad ha sperperato miliardi di dollari provenienti dalle vendite di petrolio in spese occulte oppure per scopi militari e che l’80 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà  guadagnando meno di 500 euro al mese. Brugerdi elenca 23 voci per descrivere l’attuale situazione socio-economica del paese, citando le statistiche nazionali e quelle degli enti internazionali: una lenta agonia che non permette agli iraniani di occuparsi delle beghe tra Ahmadinejad e Khamenei, come fossero rassegnati a un male incurabile e a un destino maledetto.
Il senso d’impotenza che rasenta l’apatia, è cresciuto con la violenta sconfitta del movimento verde. L’eventualità  di una guerra in questa situazione, che molti ritengono sia anche una speranza del regime, prospetta un triste panorama già  visto, già  vissuto: martellanti richiami all’orgoglio nazionale, a serrare le fila intorno al regime, mentre si farà  scorrere acqua color sangue dalle fontane nelle piazze e si tappezzeranno le facciate degli edifici con le gigantografie degli eroi e dei martiri.
Tutto a vantaggio degli ayatollah ultraconservatori, dei pasdaran e dei nazional-militaristi che gestiscono il governo. Così qualcuno si aggrappa ai paradossi pur di uscire dell’odierno vicolo cieco e scrive: «Nessuna dittatura nella storia se n’è andata se non in seguito ad una guerra. Gli iraniani hanno di fronte due strade: chiedere con una sola voce la fine del regime, oppure accettare che sia una guerra a spazzarlo via. La prima soluzione non sembra a portata di mano: non ci resta che la guerra», ha scritto Iradj, un Iradj qualsiasi, ma la sua è una voce isolata.
Intanto gli strateghi della Repubblica islamica, insieme alle minacce, partendo dalla debolezza dell’Occidente a causa della crisi economica, dall’impasse degli Stati Uniti che faticano a uscire dal pantano afgano e dalle paludi mesopotamiche a un anno dalle elezioni presidenziali, non escludono la ripresa dei colloqui negoziali: «purché si faccia in un clima di rispetto reciproco», come sosteneva ieri il portavoce della diplomazia iraniana Rahim Mehmanparast. E puntano a tornare alle trattative, questa volta da una posizione di forza, proprio grazie al rapporto dell’Aiea e al sostegno della Russia, che giudica il dossier sul nucleare «non nuovo e politicizzato», e della Cina con entrambi i Paesi che già  hanno fatto sapere di «non permettere che ci sia un attacco militare contro l’Iran». Da tempo infatti a Teheran molti pensano che con la bomba già  pronta si negozia meglio. E si fa l’esempio della Corea del Nord, presa seriamente dagli americani soltanto quando si è accertato che Pyongyang possedeva l’ordigno atomico. Ma anche questo potrebbe essere un azzardo che fa crescere l’incertezza e l’inquietudine del popolo.


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