La fabbrica Marlane-Marzotto: veleni, silenzi e ricatti. E i tempi del processo si dilatano

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Un sit-in di protesta REGGIO CALABRIA – “C’è un filo di tessuto colorato che unisce i fondi della Cassa del Mezzogiorno, la bella spiaggia di Praia a Mare, una nobile famiglia torinese, i Marzotto, svariate forme di cancro e 50 anni di storia del nostro Paese. Quel filo ha ucciso un sacco di gente, e il suo colore è un veleno incrostato nella terra di Calabria”. Valeria Coiante, conduttrice del programma “Crash”, in onda su Rai3, squarcia il velo del silenzio calato per 40 anni sulla torbida vicenda dello stabilimento Marlane-Marzotto, a Praia a Mare, con uno speciale che ripercorre anni di morti sul lavoro, ricatti e veleni. Fatti poco noti, che svelano una delle pagine più tristi della storia dell’industrializzazione meridionale, ripercorsa da un processo che da mesi stenta a partire.

Tra gli imputati spiccano nomi eccellenti. Quello del Conte Pietro Marzotto, in quanto il gruppo Marzotto è l’ultimo proprietario dello stabilimento, e quello dell’attuale sindaco di Praia a Mare, Carlo Lomonaco, a suo tempo responsabile del reparto “tintoria” della fabbrica. Misure di protezione inesistenti, negligenze, mancanza di sicurezza, sindacati che, in cambio dell’indotto aziendale, fingevano di non vedere. Questa era la Marlane, secondo quanto emerge dalle testimonianze dei sopravvissuti. “Quando tossivano, il fazzoletto era nero. E quel fumo che respiravano, lo chiamavano “nebbia in Val Padana”, testimoniano le vedove degli operai, che vivono nel cuore della città  in quelle che un tempo erano le case aziendali. Oggi, invece, le chiamano “le case delle vedove”, un dedalo di edifici e villette in cui vivono in gran parte vedove o operai ammalatisi tra le mura dello stabilimento.

Ma quella della Marlane è anche una storia di ricatti. Silenzi in cambio di posti di lavoro tra le mura del Comune di Praia, come testimonia Rosa Battipaglia. “Se non fossi stata zitta nessuno dei miei figli sarebbe stato assunto, in nessuna fabbrica”, racconta la vedova di Aurelio Greco, uno dei primi operai ad aver lavorato tra le mura dello stabilimento. Lei che si era scandalizzata al racconto della firma di licenziamento, estorta al marito, sul letto di morte, non ha mai potuto parlare. Fino a oggi. E non mancano testimonianze sulle quali la magistratura dovrà  fare chiarezza. Quella di Antonio Greco, figlio di Aurelio Greco, ex operaio Marlane. E quella di Anna Salvadori, figlia di Giuseppe Salvadori, anche lui morto dopo aver lavorato tra le mura della fabbrica dei veleni. Testimonianze che raccontano di alcuni impiegati della Marlane. A volte erano in due, altre in tre. Arrivavano puntualmente, a poche ore dal decesso dell’operaio e, sebbene fosse in fin di vita, riuscivano a fargli firmare una lettera di licenziamento. O di prepensionamento. Recidendo, prima del decesso, qualsiasi rapporto tra l’operaio e la fabbrica. Oggi sarà  un processo in piena regola a fare chiarezza sui fatti testimoniati dai familiari delle vittime e dagli operai ammalati. Ma il rischio prescrizione è dietro l’angolo. (Giulia Zanfino)

 

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