Ma il Comandante in capo lo sceglierà  l’economia

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Non accadeva dalla seconda guerra mondiale: l’America arriva a un anno dall’elezione presidenziale con un tasso di disoccupazione ai massimi storici del 9%, e un numero reale di senza lavoro che sfiora i 25 milioni. «It’s the economy, stupid!» è passato alla storia come lo slogan che fece vincere un democratico, Bill Clinton, nel 1992. Quel promemoria affisso dallo stratega elettorale James Carville nel quartier generale clintoniano, servì a concentrare l’attenzione delle truppe sull’unico tema che anche allora contava davvero: l’economia. Quella regola sarà  valida più che mai nel 2012, ma stavolta rischia di condannare alla sconfitta il presidente democratico uscente. La radiografia degli umori americani è legata ai grafici dell’economia, lo conferma l’ultimo sondaggio Washington Post-Abc News. Il 56% degli elettori sono convinti che la corsa alla Casa Bianca sarà  decisa dalla situazione sul mercato del lavoro. Solo un terzo della popolazione crede nella ripresa economica. I tre quarti vedono invece l’America “avviata nella direzione sbagliata”. Infine, i due terzi dei cittadini adulti dubitano di poter mantenere il proprio tenore di vita nel futuro. Eppure sono passati ben due anni da quando la misurazione ufficiale del ciclo economico ha sancito “la fine della recessione”. Una definizione controversa: gli economisti riconoscono le recessioni solo quando il Pil va in negativo.
Ma l’America è ancora nel bel mezzo della Grande Contrazione, come la chiama l’ex chief economist del Fondo monetario internazionale, Kenneth Rogoff. Una definizione efficace perché dà  l’idea di un rimpicciolimento generale, un restringimento degli orizzonti, un impoverimento diffuso. Anche se il Pil ha smesso di decrescere, la ripresa è inesistente per quanto riguarda le due cose che contano: le opportunità  di lavoro, e il reddito di chi un posto ce l’ha già . Cioè i due fattori fondamentali per il potere d’acquisto, la domanda interna, il tenore di vita. Nella “recessione ufficiale” l’America (2008-2009) ha visto scomparire 8,8 milioni di posti di lavoro. Nel cosiddetto “dopo-recessione”, ne ha ricreati solo 2,3 milioni. I conti non tornano. È deludente anche l’ultimo dato reso noto venerdì: nel mese di ottobre sono stati creati 80mila posti netti, saldo fra le nuove assunzioni e i licenziamenti. Troppo pochi per assorbire i disoccupati insieme alle nuove leve che arrivano sul mercato del lavoro. A questo ritmo bisognerà  aspettare il 2016 per ritrovare i livelli di occupazione pre-crisi. Significa che la Grande Contrazione alla fine sarà  durata otto anni. Più di una piaga biblica. Poco meno della Grande Depressione degli anni Trenta.
Dal punto di vista della percezione di massa, della situazione sociale, questi aridi numeri vengono aggravati dallo sfascio del Welfare State. Anche lo Stato sociale, le reti di protezione e di sicurezza, sono vittime della Grande Contrazione. In questo caso l’operazione ridimensionamento ha origini ancora più antiche, lo smantellamento graduale dell’assistenza iniziò sotto il presidente repubblicano Ronald Reagan trent’anni fa, venne proseguito da Clinton. Risultato: il diritto a percepire un aiuto si esaurisce velocemente per i senza lavoro. Ancora all’inizio del 2010 il 75% dei senza lavoro percepivano un’indennità , oggi solo il 48% hanno ancora diritto all’assegno mensile. Si ingrossano le file dei disoccupati di lunga durata, un fenomeno che un tempo era tipicamente europeo. Anche la condizione dei giovani americani si è “europeizzata” durante questa crisi, con tassi di disoccupazione attorno al 25%, in passato sconosciuti. Si appanna quel binomio flessibilità -dinamismo che per decenni era stato visto come una superiorità  americana rispetto al Vecchio continente. In mancanza di crescita, in assenza di una domanda interna sostenuta dal potere d’acquisto, la flessibilità  del lavoro è solo “in uscita”, velocizza i licenziamenti e basta.
Obama non sa più da quale direzione attendersi un aiuto. Questa settimana partecipa a due vertici con i leader dell’Asia-Pacifico: alle Hawaii il summit dell’Apec, a Bali quello dell’Asean. Tenterà  ancora una volta di spronare la Cina e l’India a fare da locomotive della ripresa. È la “dottrina” che Obama ha tentato di promuovere in tutti i G20 dal 2009 a oggi: trainare la crescita globale oggi è un compito che spetta a chi ha forti attivi commerciali, monete sottovalutate, vasti bisogni da soddisfare aumentando i consumi interni. È l’identikit perfetto della Cina. Ma l’aumento dei consumi cinesi, indiani, brasiliani, russi, finora non è stato una panacea. In parte perché altri (il made in Germany) sono più competitivi su quei mercati. In parte perché le potenze emergenti riunite nel club dei Bric hanno ormai i loro “campioni nazionali”, e varie forme di protezionismo strisciante a favore delle aziende di casa. L’export made in Usa sale, aiutato dal dollaro debole, ma non abbastanza per cambiare il segno della situazione sociale.
C’è un altro cruccio che tormenta Obama a un anno dalla rielezione. A memoria d’uomo non si ricorda una sola ripresa americana, nella quale non abbia avuto un ruolo determinante il mercato immobiliare. La rinascita degli investimenti nelle case è tipicamente il segnale precursore di una ripresa solida. Anche su questo fronte, a 12 mesi dal voto le notizie sono pessime. I prezzi del mattone restano depressi, hanno subìto un tracollo del 30% rispetto ai massimi del 2007, e non danno segni di vita.
Ma di chi è la colpa? Da qui al novembre 2012, nel corso della campagna elettorale si affronteranno due letture diametralmente opposte sulle cause di questa Grande Contrazione. Il più quotato dei candidati repubblicani, Mitt Romney, non ha dubbi: «Una spesa pubblica irresponsabile e scriteriata, dei deficit pubblici massicci, stanno strangolando la nostra economia». Questa è la narrazione che la destra è riuscita a imporre nel novembre 2010 quando vinse le elezioni parlamentari di medio termine trainata dal movimento anti-Stato del Tea Party. Da sinistra la lettura è diametralmente opposta: Obama fu troppo timido quando varò la manovra di 800 miliardi di dollari a sostegno della crescita (il Recovery Act del gennaio 2009), la sua colpa è di avere tolto troppo presto il piede dal pedale dell’acceleratore. L’ala progressista del partito democratico rimprovera al presidente di aver perso tempo – e immagine – rincorrendo un accordo bipartisan sulle misure di sostegno alla crescita. Un peccato d’ingenuità , secondo i suoi critici da sinistra: Obama non ha capito che questo partito repubblicano è molto più estremista di Reagan; la destra non accetterà  nessun compromesso perché bloccare la ripresa economica è il modo migliore per assicurare che il primo presidente afroamericano non andrà  oltre un mandato. La speranza per Obama può venire da Occupy Wall Street? Il merito di questa protesta è di avere introdotto nel dibattito pubblico una narrazione alternativa della crisi: riportando in primo piano le responsabilità  delle oligarchie finanziarie, e le diseguaglianze sociali. Attenzione, però: Occupy Wall Street è un efficace antidoto all’ultraliberismo di destra, ma non necessariamente un alleato di Obama. Al suo interno c’è una robusta corrente di radicali disillusi, che considerano Obama un traditore e potrebbero astenersi.


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