Obama convince la Ue: crescita prima dei tagli

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WASHINGTON – «Primo, rilanciare la crescita. Secondo, creare posti di lavoro. Terzo, assicurare la stabilità  finanziaria». In quest’ordine. Il comunicato congiunto Usa-Ue non poteva essere più chiaro. Porta l’impronta dominante di Barack Obama. E’ il presidente degli Stati Uniti ad avere voluto questa gerarchia delle priorità , sancita nel documento finale. «Se l’Europa non esce da questa crisi è un problema enorme, è un problema nostro e del mondo intero», avverte il presidente degli Stati Uniti dopo aver ricevuto alla Casa Bianca i rappresentanti dell’Unione, Herman Van Rompuy e Jose Barroso. Ma il presidente rovescia l’agenda, rispetto alle priorità  imposte dai mercati: se si parte dai tagli, o peggio ancora se si parla solo di tagli, la recessione è certa. E non importa che l’agenzia di rating Fitch voglia riportarlo a occuparsi esclusivamente dell’austerità , trasformando in negativo l’outlook del debito Usa («50% di probabilità  di downgrading in due anni»).
Obama sa che in recessione il peso del debito pubblico aumenta inesorabilmente, perché scende quello del Pil che misura la capacità  dell’economia reale di rimborsare le “cambiali”. E così al summit di Washington il leader americano strappa un’altra decisione simbolica: la creazione di un gruppo speciale di lavoro Usa-Ue «per mettere a punto al massimo livello strategie comuni per la crescita e l’occupazione». Da lì bisogna partire, Obama lo ribadisce anche a costo di far salire il prezzo del suo aiuto all’eurozona. «Non c’è stata nessuna discussione su un aumento del contributo americano al Fondo monetario, né su aiuti speciali del Fmi a paesi europei», precisa un alto collaboratore del presidente americano. Obama spiega che lui è sì disposto a «fare la sua parte» per il superamento dell’emergenza euro, però si aspetta «azioni più audaci, più determinate, più rapide, da parte dei leader europei». E’ chiaro di che cosa si tratta. La Casa Bianca non giudica adeguati gli strumenti anti-crisi adottati finora a Bruxelles e Francoforte. Già  due mesi fa Obama mandò in missione “a gamba tesa” all’Ecofin il suo segretario al Tesoro Tim Geithner perché dicesse agli europei: «Il vostro fondo salva-Stati è inadeguato, si rivelerà  troppo piccolo se la sfiducia colpisce un paese come l’Italia. Va rafforzato con l’effetto-leva, attraendo capitali privati, che devono essere invogliati a investire in titoli pubblici e azioni bancarie, fornendogli garanzie pubbliche».
E’ il modello che fu usato in America per ripulire la finanza tossica dopo il crac di Lehman. In ritardo e a malincuore gli europei hanno finito per seguire quei consigli, ma non abbastanza. Resta il pericolo di crac bancari a catena, se la Bce non mobilita tutti i suoi mezzi (potenzialmente illimitati) per garantire che nessuna grande banca europea sarà  lasciata fallire. Ecco perché Obama fa pesare agli europei il suo appoggio. Ci sarà , se necessario, anche sotto forma di un rifinanziamento del Fmi, di cui gli Stati Uniti sono il primo azionista. Ma Obama vuole vedere prima dei cambiamenti nel profilo della Bce, troppo timida rispetto alla Federal Reserve americana. Gli dà  ragione, proprio nelle stesse ore in cui riceve Van Rompuy e Barroso alla Casa Bianca, un rapporto degli economisti di Ucla pubblicato sul Wall Street Journal: rivela che la volatilità  delle azioni bancarie in Borsa è tornata ai livelli del 2008. Le oscillazioni estreme, repentine e violente, sono un segnale premonitore: indicano che gli istituti di credito viaggiano di nuovo sull’orlo di un precipizio. Ad alimentare l’allarme del presidente c’è un altro dato: non solo i grandi investitori di Wall Street, Londra, Tokyo e Hong Kong, ma adesso anche quelle “camere di compensazione” che gestiscono il mercato globale dei cambi, si stanno preparando alla disgregazione dell’eurozona. Icap Plc, Cls Bank International, sigle oscure che non dicono nulla ai profani ma sono ben note alle banche: sono loro i veri “gestori” del sistema di scambi tra valute, il tessuto d’interconnessione fra le banche di tutto il pianeta. Ebbene, proprio loro stanno simulando delle operazioni in marchi, lire, dracme, per addestrarsi all’eventualità  che alcuni Stati membri lascino l’euro.
Una prospettiva inaccettabile per Obama. Ancora una volta, come nella primavera del 2010, il presidente vede a portata di mano la “sua” ripresa: in America i dati del Black Friday e Cyber-Monday, le due giornate di sconti e saldi dopo Thanksgiving, segnalano un improvviso revival dei consumi. Un buon segno, che le Borse festeggiano. Ma basterà  un altro spasmo della crisi europea per dissipare l’ottimismo. Difendere l’eurozona è un obiettivo strategico per Obama, legato a doppio filo alla sua rielezione. E non solo perché bisogna impedire che uno sfaldamento dell’Unione monetaria trascini il mondo intero nella recessione; ma anche perché in fondo il modello sociale europeo è un pezzo d’identità  dello stesso Obama, il “socialista” che i repubblicani continuano a demonizzare.


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